La recensione su Super 8

Ogni generazione - ma anche ogni stagione - ha il suo racconto di formazione per eccellenza. La letteratura ne è certamente piena, io per primo, a volte, non posso fare a meno di tornare col pensiero alle pagine de "Il giovane Holden" ma, col passare degli anni, anche il cinema ha fatto incetta di titoli memorabili. Alludo a pellicole come "I 400 colpi" (su di un altro livello), "E.T.", "Stand by me", "L'attimo fuggente" e così via arrivando ad uno dei miei cult personali, nonché punto di riferimento irrinunciabile della mia infanzia: "I Goonies". Oggi come allora, uno dei nomi più frequenti in questo tipo di produzioni continua ad essere quello di Steven Spielberg; un uomo, prima ancora del cineasta, che della capacità di sognare e narrare ha fatto una vera e propria ragione di vita. Ne sa qualcosa il buon J.J. Abrams, regista di talento che, al suo terzo lungometraggio per il grande schermo, guarda al maestro di Cincinnati, non con uno, ma con entrambi gli occhi spalancati. L'ispirazione è manifesta e dichiarata ma "Super 8" riesce ad andare ben al di là del semplice ed accorato omaggio sviluppando una sua estetica, combinando sapientemente i generi pur mantenedo una struttura classica, attualizzando tematiche universali, assurgendo appunto - e di diritto - al titolo di racconto di formazione di questi strani anni dieci. Un po' paradossalmente, a dire il vero, perché la vicenda è ambientata nel '79 ma più per un vezzo autoriale che per reale costrizione. L'epoca in questione, infatti, si sposa come nessun'altra a questo tipo di avventura in cui i protagonisti sono immancabilmente dei ragazzini che compensano l'infelicità domestica con imprese collettive fuori dall'ordinario che li aiuterà a crescere e ne cementerà l'amicizia, magari sfociando addirittura nel primo amore. "Super 8" non fa eccezione nel raccontarci la storia di Joe, Alice e dei loro amici che, nel fantasioso tentativo di girare un horror amatoriale, s'imbattono in un incidente dalle conseguenze molto più grandi di loro, praticamente extraterrestri. Quello di Abrams, come al solito, è intrattenimento di livello. Tecnicamente ineccepibile, ben scritto e messo in scena con sapienza ed uno spiccato gusto per le scene madri, il film del creatore di "Lost" è costellato di momenti chiave in cui ritmo e tensione cedono funzionalmente il passo a stralci di forte emotività che rendono il tutto decisamente più memorabile della media. Se la sequenza del disastro ferroviario è infatti un vero e proprio pezzo di bravura mozzafiato, Abrams riesce a colpire anche con una struggente e dolcissima confessione in piena notte e con un confronto finale pieno d'umanità e speranza. Certo, i buoni sentimenti sono indispensabili per il funzionamento di queste operazioni ma qui siamo lontani dalla favoletta fine a sé stessa e ci viene più volte ricordato di quali orrori sia capace l'arroganza, l'orgoglio e l'ingordigia dell'essere umano. Le citazioni, come accennato in apertura si sprecano ma a trasparire genuinamente è sempre e solo l'autentica passione per il cinema: quella del regista per i capolavori di genere così come quella dei suoi giovani protagonisti per i b movies che tentano di emulare. Un'avventura sci-fi dal sapore vintage, ben costruita ed interpretata da un cast prevalentemente televisivo che ha in Elle Fanning, tanto nella finzione quanto nella realtà, l'unica vera ed indiscutibile fuoriclasse. E vediamo di sfatare una volta per tutte il mito che vuole Abrams unicamente come autore televisivo di culto. J.J. ha dimostrato di saper fare anche il cinema. Mainstream, quello che volete. Ma cinema.