Regia di Michael Bay vedi scheda film
Consideriamo il cinema come un corpo in perenne mutazione. Se c’è un luogo privilegiato dal quale osservare questa metamorfosi, allora questo “luogo” si chiama Michael Bay. Qui si consuma la fine del cinema come lo abbiamo conosciuto (Cameron fa altro). Per questo motivo lo spettacolo che offre ogni suo nuovo film è vertiginoso: perché mette in discussione tutto ciò che pensiamo di sapere del cinema e di come questo impatta sul mondo in cui viviamo. Non si tratta più di formulare giudizi di valore. Bisogna capire cosa accade al nostro sguardo mentre i pixel compongono a velocità inimmaginabili folli coreografie di fantasmagorie pirotecniche. Siamo oltre la logica del blockbuster. La radicalità di Bay chiama in causa l’avanguardia industriale pura anche se compiuta dall’interno del cuore stesso dell’industria. La malinconia ineludibile del suo cinema è l’ineluttabilità di un percorso che è già oltre il cinema. Quando il canto delle macchine si eleva maestoso, come nell’estenuante finale, si vede all’opera un creatore di immagini che vorrebbe essere ancora chiamato “cineasta” ma che sa che il cinema non esiste più. Ed è questa malinconia che si sprigiona silenziosa nel fragore di lamiere che ci suggerisce che forse il fantasma dei 24 fotogrammi al secondo continua a palpitare tra le pieghe dei pixel. Forse è per questo che gli Autobot scelgono l’esilio e si schierano dalla parte degli umani: forse la macchina può essere ancora una possibilità di... relazione.
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