Regia di Michael Bay vedi scheda film
In un’intervista recente, Michael Bay sostiene che la sua trilogia sta agli anni duemila come Guerre stellari sta agli anni settanta e ottanta. Il paragone non sta in piedi. Il cinema cambia di giorno in giorno. George Lucas è un uomo di un altro cinema. Un cinema diverso, non per questo migliore, ma tant’è. È il cinema ad essere cambiato, e ancor di più il film. A parte rare eccezioni, il film ha perso la sua natura di evento estetico, preferendo la commercializzazione dell’opera sfruttabile attraverso qualunque tipo di intertestualità. A volte riesce a conciliare entrambe le cose, ma di James Cameron non ce ne stanno molti in circolazione.
Bay fa parte della scuola del fracasso: buttarla in caciara è un modo per scompaginare tutto, tanto poi nessuno si chiede chi metta in disordine. È americano, e l’archetipo del genere cinematografico da lui prediletto batte bandiera a stelle e strisce. La fantascienza, dunque, si rinnova e si rinnoverà sempre nella sua terra natale, e le ragioni sono anche ovvie. È meno ovvio, ma non per questo scontato, il discorso che sta dietro al genere: Bay e compagni continuano a giocare sulle (proprie) paranoie di americani egocentrici proponendo l’idea di un mondo in cui gli alieni ci sono e nessuno si pone il problema di perché ci siano, dando per scontate le proprie paranoie stesse riguardo l’esistenza di altre forme di vita.
Non voglio dire che esse non esistano, al contrario: l’immaginario americano si alimenta talmente di se stesso e del proprio autocompiacimento che è arrivato al punto tale di mettere in scena i fantasmi delle loro paure. Qui hanno le forme complesse di macchine trasformate con l’umanità di personaggi tragici (specie il tormentato traditore Sentinel) e a tratti invadono la scena ché diventa pure inutile rubarla agli attori in carne ed ossa. Bay, con movimenti convulsi, seguendo la logica del caos forse anche fine a se stesso, si interessa, infatti, più alla macchina che all’uomo, perché di base è il mondo che racconta (e che si fa raccontare, che si può oramai raccontare) ha scelto la macchina a scapito dell’uomo che l’ha costruita.
Dandole vita propria, s’inserisce in un’ottica futuristica, ma probabilmente penso che non fosse quella la reale intenzione dei suoi autori (o sarebbe meglio dire produttori). E qui risiede il reale problema di questo ambiziosissimo, lungo (due ore e mezza sono decisamente troppe) e complicato blockbuster d’(aspirante) autore: come si fa a conferire umanità ad una macchina quando ad essere carenti d’umanità sono gli effetti speciali, organizzati senza una vera ragione emotiva che non sia quella di impressionare, stupire, confondere? E perché proprio quegli effetti speciali non riescono davvero ad emozionare lo spettatore? Sarà un problema di assuefazione?
Se poi alla fantascienza si unisce anche la fantastoria – perché partiamo dagli anni sessanta (ma quanti spettatori medi del film se ne accorgeranno, quegli spettatori medi che a stento riconosceranno il sosia di Obama, che ignorano per quale motivo gli americani ce l’abbiano coi russi e chi sia McNamara e che non pensano minimamente che Francesc McDormand, da grande saggia qual è, non fa altro che ispirarsi al decisionismo pragmatico Hillary Clinton?) con strambe fantasie sul già misterioso sbarco sulla Luna, in cui pare che Armostrong e compagni abbiano trovato tracce di vita aliena sotto forma di mezzo di trasporto abbandonato con dentro nascosto un transformer (ed ecco allora le risate dello spettatore con un briciolo di cognizione di causa) – il problema si fa anche più interessante.
Fosse anche il blockbuster più ambiguamente kitsch degli ultimi tempi? Chissà, fatto sta che a mancare davvero, ancora una volta, è un’anima, di cui ogni tanto, nella prolissa ripetitività delle scene, si può trovare una lieve traccia (i paracadutisti che si gettano dalla torre, ma anche gli egoistici tormenti di Patrick Dempsay). Guerre stellari un’anima ce l’aveva. Eccome.
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