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Transformers 3

Regia di Michael Bay vedi scheda film

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La recensione su Transformers 3

di lussemburgo
4 stelle


Il tridimensionale nativo imprime al film di Bay un’apprezzabile calmata ritmica e le inquadrature si dilatano sino a trasformarsi da percezione (2 secondi di durata media) a visione, anche se non raggiungono il valore contemplativo di Avatar. Nel terzo capitolo della guerra tra macchine senzienti lo spettatore può permettersi il lusso di capire quello che si muove sullo schermo, comprendendo le dinamiche vettoriali dell’azione.
Il film resta però pericolosamente coerente con tutto il cinema di Bay, ovvero l’espressione più compiuta di regia tamarra tanto che sarebbe auspicabile un film con Nichols Cage, emblema del coatto inespressivo con recitazione tricologica. Il divertimento della distruzione di ogni scenario riconoscibile del pianeta si conferma come danno collaterale della spettacolarità ostentata, senza remora alcuna e, anzi, con il palese divertimento del gioco infantile. Del resto, lo spettatore tipo dei film di Bay è l’adolescente represso che, masticando pop-corn e urlando in sala, apprezza oltremisura l’esibizione delle forme femminili della bimbo di turno (curve espansive su volto improbabile ed espressività da valletta), la sottolineatura multipla (tra resa fotografica con contrasto elevato e saturazione dei colori, musica di sottofondo e battuta di dialogo) per il potenziamento retorico di ogni frammento filmico a conferma del già detto. Luce tagliata, sfoggio del ralenti, tinta ocra e ripresa dal basso sono elementi ricorrenti delle inquadrature del maestro del frastuono il cui unico impegno è la costruzione di una narrazione in automatico che procede per distruzioni e scontri progressivi. Il sillabario di base è quello pubblicitario (effetto immediato e brevità di comunicazione), da cui il regista mutua il sottofondo intellettuale con il facile abbinamento tra donne e motori, assenza di credibilità dei dialoghi (necessari solo a giustificare la presenza degli interpreti) e frenesia cinetica delle inquadrature. Ma l’estetica di riferimento è ormai datata e abbandonata anche dai fratelli Scott, i primi a sfruttarne le caratteristiche qualche decennio fa, mentre rimane in auge per tristi e triti epigoni di un cinema decerebrato (Sena, Turteltaub, Tamahori, Schumacher , West e consimili).
Quel che rimane è semplice orpello, soprattutto gli attori, ingaggiati solo in funzione di un costante alleggerimento comico che sfocia nel ridicolo di una caratterizzazione monocorde, replicata sino al grottesco saccheggiando il parco degli interpreti dei fratelli Coen (Turturro, Malkovich, McDormand) a dare improbabile lustro d’autore alla pagliacciata complessiva (solo Dempsey sembra convincente e contento di essersi liberato del Dottor Stranamore). Anche Leboeuf recita controvoglia (tanto da essersi già sottratto a qualsiasi ipotesi di reiterazione del personaggio), a conferma dell’assoluta inutilità della presenza umana nel film, del resto confermata dalla sceneggiatura che fa della Terra lo sfondo della guerra tra Autobot e Decepticon e dei suoi inerti abitanti i futuri schiavi delle macchine (dopo adeguato teletrasporto del pianeta di origine).
Gli apprezzabili effetti speciali rendono credibili gli eventi mostrati e la terza dimensione trasporta all’interno dell’azione, ma non riesce mai nel tentativo di coinvolgimento sebbene sia apprezzabile per il freno alla repentinità del cambiamento di inquadratura. Eppure la prospettiva non cambia e rimane sempre quella di una macchina. Una macchina-cinema destinata all’incasso e alla esuberanza tecnica, alla psicologia ricondotta alla profondità di un messaggio da cioccolatino, alla retorica trasformata in cifra stilistica all’interno di un’estetica della violenza impositiva che non tratteggia ma definisce solamente, senza lasciare scampo alla distruzione del contesto, mentale e fisico. Il vuoto è la condizione naturale della visione per Bay, il cui ogni attività sinaptica è una pericolosa distrazione. Il resto è noia.

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