Regia di Andrei Tarkovsky vedi scheda film
L’arte della pittura, come l’arte del cinema, consiste nell’amare con lo sguardo la vita in divenire, e far rifiorire questo amore sulla tela o sullo schermo. In questo film Tarkovskij affida al suo personaggio la difficile missione di esplorare la realtà del suo tempo: Andrej è l’artista in cammino per trovare il proprio posto in un mondo tardomedievale diviso tra sacro e profano, in cui le autorità laiche ed ecclesiastiche opprimono le coscienze, e il popolo è in balia della miseria e dell’oscurantismo. La stessa arte pittorica è combattuta tra elaborazione razionale e trasporto religioso, tra tecnica mercenaria e libera ispirazione, tra bellezza carnale e fulgore spirituale. In un contesto così tumultuoso, Rublëv impersona la centralità dell’essere, indipendente e completo, tormentato dalla sua bipolarità di uomo del Quattrocento: una figura crepuscolare che, sfuggendo ad ogni classificazione ed asservimento, si ritrova solo in mezzo ai suoi simili. Nella prima parte del film è Gesù Cristo l’entità di raccordo tra la Terra e il Cielo, l’unico punto di riferimento interiore in tanta incertezza; tuttavia, per la limitata prospettiva umana, Egli non può apparire, secondo il Vangelo, come vero uomo e vero Dio, bensì unicamente come mezzo uomo e mezzo Dio, ed il problema è dove tracciare la fatidica linea di separazione. Nella seconda parte, il dilemma deflagra in una sfida tragica ed epocale, con la barbarie che oltraggia la santità e massacra l’innocenza, in nome del potere e del denaro: un’apocalisse del male che frantuma, nel cuore di Andrej, monaco e pittore russo, le icone della patria e dell’arte, riducendolo ad un mistico silenzio. La visione dell’inferno prosegue con le calamità naturali, la neve, la carestia, la peste. Il disgelo porterà la rinascita dell’umanità, nel corpo e nell’anima, sotto forma della fornace di argilla costruita per fondervi una campana. Il leitmotiv è la simbologia del fuoco, che è fiamma di incendio, scintilla di fucina e falò di sterpi e che, con un linguaggio universale, trasversale a scienza e fede, richiama l’idea della purificazione. La festa con cui la campana, con l’effigie di San Giorgio, viene issata sulla torre, è la celebrazione di una vittoria del coraggio e della operosità umana, che vengono riconsacrati dopo la parentesi d’odio e di devastazione: un trionfo del lavoro umile, devoto e collettivo, che fa da contraltare al solitario volo in aerostato compiuto dall’artista nella prima scena. La tensione, all’inizio ed alla fine, è sempre la stessa, per tutti e per il singolo: l’innalzamento è luce, è l’oro delle icone sacre che illumina la mente ed allarga l’orizzonte, ma la vita di quaggiù è fango e pioggia che fecondano la terra. Il lacerante dissidio tra umano e divino si risolve solo rinunciando alla pretesa di risolverlo, ed accettando di vivere così, sospesi nella penombra, in un mutevole equilibrio tra le sponde opposte della verità. Un capolavoro di escatologia poetica, nel vibrante linguaggio neotestamentario. Semplicemente grandioso.
Il racconto è suddiviso in capitoli monotematici, che sembrano parabole dilatate, aperte alla contemplazione estetica ed alla evoluzione narrativa. Il ritmo non è quello affannoso con cui si susseguono gli eventi, ma quello lento con cui le vicende umane si sviluppano in meditazioni.
Tarkovskij parte dall’uomo per guardare oltre, e scoprire che, in realtà, non v’è nulla che lo superi o lo trascenda, perché egli racchiude in sé la natura pura e semplice, ma anche le pulsioni diaboliche e gli slanci celestiali. Questo film è una professione di fede nell’Uomo che, come tutte le fedi, è costantemente assalita dal dubbio.
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