Regia di Andrei Tarkovsky vedi scheda film
Andreij Rublëv è stato girato fra il 1965/66 (ma in patria è uscito solo nel 1971 per problemi di censura) all’inizio del periodo cosiddetto “di stagnazione”, quando l’allora URSS era governata da Leonid Brežnev. La trama del film riguarda la vita del grande pittore di icone eponimo, monaco vissuto nel XV secolo, (interpretato da Anatolij Solony?in, l’attore preferito del regista) nonostante se ne abbiano poche notizie certe. Era un’epoca in cui la Russia era divisa in molti principati e gli artisti non erano autonomi, ma si spostavano di luogo in luogo per eseguire le opere commissionate seguendo canoni prestabiliti.
Lo schema narrativo è ad episodi, distanziati nel tempo e nello spazio, senza però essere frammentario perché vi sono riscontri e rimando fra gli stessi; si può dire, a grandi linee, che nella prima parte sono poste i temi e le questioni che nella seconda parte trovano una loro soluzione rivelando la struttura simmetrica: funge da snodo centrale il massacro compiuto nella città di Vladimir e il dialogo che ne segue fra Andreij e il fantasma del suo maestro, Teofane il Greco (Nikolaj Sergeev), le cui parole svelano il senso profondo del film “Impara a compiere il bene, sottoponiti al Giudizio, solleva coloro che sono oppressi e avrai fatto tutto quello che devi. È tutto quello che devi.” Il fare, e farlo bene, è cioè superiore al voler essere.
Il prologo della mongolfiera, in cui un monaco tenta di sollevarsi al disopra della realtà staccandosi da essa (concretamente e metaforicamente) e finisce sfracellato al suolo, trova corrispondenza e il tentativo viene confutato dall’episodio finale della fusione della campana in cui il ragazzo, con le sue forze e il suo spirito di iniziativa si confronta con la realtà sporcandosi letteralmente le mani ed ottiene il risultato senza ricorrere pedissequamente alla tradizione ma solo sfruttando le proprie capacità poste al servizio della comunità. Così anche nell’episodio della festa pagana, il tema della soddisfazione degli istinti corporali, principalmente il sesso rifiutato da Andrej che si isola, trova la sua corrispondenza nella scelta della ragazza muta e folle, che Andrej protegge confinandola nel monastero, di andare con i Tartari come compagna e trovare anche un proprio ruolo sociale. E il monaco Kyrill (Ivan Lapikov) collaboratore di Andrej, che per invidia di questi abbandona polemicamente il monastero, alla fine vi ritorna ad espiare le sue colpe, conscio dei propri errori, e svela di essere stato lui a denunciare il buffone (Roland Bykov), che sbeffeggiava i boiardi nel primo episodio, scagionando Andrej.
Viene spontaneo, poi, vedere un parallelo fra la cattura del buffone nel primo episodio e l’attività di repressione del dissenso da parte della odierna polizia politica, che ha cambiato tanti nomi (Terza Sezione, Okhrana, Ceka, GPU, NKVD, KGB e ora FSB) ma è sempre rimasta la stessa struttura oppressiva, così come lo scempio di Vladimir ricorda le efferatezze dei nazisti durante l’invasione e forse non solo quelle: come dice Andrej (Rublëv o Tarkovskij?) “Russia, Russia, sempre disposta a sopportare tutto, a subire tutto”.
Il film, girato in uno splendido bianconero si conclude con un’esplosione di colore mostrando particolari delle icone di Andrej Rublëv, come uno sbocciare di fiori germogliati dai semi presenti nelle vicende narrate: l’arte come espressione sublimata della vita.
Il regista cura in particolar modo gli aspetti visivi scegliendo le inquadrature (spesso dall’alto e in campo lungo) con un montaggio fluido, anche con piani sequenza, e facendo prevalere lo sguardo sulla parola, comunica così il proprio pensiero con un ritmo solenne e perfettamente funzionale alla narrazione che riguarda l’animo più che le azioni in sé dei personaggi; una lode in particolare va alla suggestiva fotografia in bianconero di V. Jusov e all’ottima recitazione degli attori, ben diretti da Tarkovskij.
Andreij Rublëv è senz’altro un capolavoro assoluto e rientra nei più grandi film della storia del cinema.
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