Regia di Andrei Tarkovsky vedi scheda film
Andrej Tarkovskij e l'immagine infinita
Andrej Tarkovskij può essere unanimemente considerato uno tra i più grandi cineasti di tutti i tempi. Ciò che lo contraddistingue rispetto alla maggioranza dei suoi colleghi è la presenza di un èthos che lo porta ad entrare in contatto profondo con la realtà e a trovarsi in costante tensione verso un assoluto difficilmente conoscibile, se non attraverso la mediazione artistica. Il cinema per Tarkovskij è la forma d’arte più realistica, dacché è in grado di registrare fattualmente il tempo e, nel caso delle opere cinematografiche più autentiche, di implementare l’esperienza del reale. L’arte, secondo questa angolatura, svolge il ruolo di veicolare l’attenzione dello spettatore verso un’immagine che non lascia più intravedere la linea di demarcazione tra se stessa e il mondo: contemplare o produrre un’ immagine significa tout court contemplare o produrre il mondo. L’immagine autenticamente artistica è, infatti, infinita-non si esaurisce nello spazio dell’inquadratura-in quanto è specchio, e dunque rivelazione, di quell’assoluto, altrimenti indicibile, che permea il mondo.
Per il raggiungimento dell’immagine infinita è necessario però, nel processo di creazione artistica, evitare il ricorso a simbolismi ed espressività definite; al punto che il vero compito dell’artista consiste nel produrre immagini che non si lascino dominare intellettualisticamente mediante ermeneutiche unilaterali e che non consentano la rilucenza dello sguardo dell’autore. L’immagine artistica non deve, quindi, infondere allo spettatore associazioni predeterminate, in modo tale che sia egli stesso a produrle attraverso l’incontro tra la propria sensibilità e l’immagine patita. Chi si addentra nella cinematografia del regista russo deve dunque rinunciare alla volontà di possedere immagini e di decriptare significati strutturati simbolicamente; lasciandosi, al contrario,
guidare attivamente dal tempo delle inquadrature e predisponendosi ad accogliere la presenza di ciò che appare sulla superficie dello schermo. Solo in questo modo è possibile entrare in risonanza con la liquidità, spalancata sul trascendente, del cinema tarkovskiano.
Per un'arte spirituale: Andrej Rublev
‘’Andrej Rublev’’ è il secondo lungometraggio di Andrej Tarkosvkij, collocato a metà tra il film d’esordio ‘’L’infanzia di Ivan’’ (1962) e la pellicola che lo ha reso celebre al grande pubblico, ovvero ‘’Solaris’’ (1972). Il film è diviso in otto episodi e narra alcune vicende della Russia del XV secolo attraverso lo sguardo di Rublev, monaco-pittore tra i più celebri della Russia di quel tempo. Ciò che colpisce immediatamente di quest’opera è la sporadicità della presenza di Rublev. Egli infatti compare di rado nelle scene, e là dove è presente, non sembra il protagonista. Questa scelta stilistica risponde ad una delle caratteristiche principali di questo film: il voler non tanto tracciare una biografia di Rublev quanto comunicarne lo sguardo sul mondo. Ciò che fa da collante ai fatti narrati, apparentemente autonomi, è infatti proprio l’oggettività prospettica con cui vengono esposti. Questa tipologia di sguardo, nonostante sia presente sin dall’inizio del film, da un punto di vista narrativo costituisce l’approdo finale del percorso di maturazione spirituale di Rublev, e ciò lo comprendiamo solo retrospettivamente.
La lente cristallizzata, oggettiva, con cui vengono narrati gli episodi corrisponde a livello spirituale alla visione mistica della realtà, dove vige l’assoluta assenza di punto di vista conseguentemente alla rinuncia dell’ individualità. Il film infatti appare come impenetrabile, esterno allo spettatore; ogni processo immedesimativo fallisce, e questo perché la pellicola sembra costruita secondo la prospettiva rovesciata propria delle icone russe, dove il punto di fuga prospettico è collocato dalla parte dell’osservatore. Così facendo l’immagine (in questo caso cinematografica) si protende verso chi la osserva, interpellandolo direttamente: si è, da ultimo, scrutati dalle immagini. A ben vedere, l’evoluzione spirituale di Rublev potrebbe essere geometricamente descritta mediante la coesistenza nel film della prospettiva lineare e di quella rovesciata - già menzionata - rispecchianti due modalità di rapporto con il mondo completamente differenti.
Tutto il dispendio di profondità, di spazialità, di liquidi, superfici e movimenti delle immagini si rapprende nelle linee asciutte, negli sguardi ieratici e nelle atmosfere congelate delle opere di Rublev mostrate nel finale del film, nelle quali la compattezza e la saturazione esperienziale che ne stanno alla base trapassano nel più accentuato ascetismo e astrattismo: senza il percorso di progressiva rinuncia egoica e senza l’esperienza diretta della sofferenza storico-sociale (le invasioni dei tartari, ad esempio) la forza della sua pittura non si sarebbe potuta sviluppare. Inoltre, la conquista della cromaticità nelle scene finali della pellicola, rispetto al precedente bianco e nero, sembrerebbe confermare l’idea della necessità di un’evoluzione spirituale preliminare ad ogni creazione artistica che voglia dirsi autentica. Il capolavoro di Tarkovskij è dunque al contempo manifesto della correlazione tra l’arte e la spiritualità e messa in scena di due visioni del mondo diverse ed inconciliabili: da una parte un approccio prospettico lineare nei confronti della realtà, dove riluce la protervia dello spettatore nel voler dominare lo spazio prospettico delle immagini, inquisendole dall’interno; dall’altra il rovesciamento di tale prospettiva, dove è invece l’immagine a interrogare, giudicare e rivelarsi allo spettatore, il quale, quindi, si ritrova umilmente a subirla, come è avvenuto con Rublev nei confronti dell’assoluto: rinunciando a se stesso si è predisposto ad accoglierlo.
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