Regia di Duncan Jones vedi scheda film
Sean Fentress (Jake Gyllenhaal) era un’insegnante di storia, il Capitano Colter Stevens (Jake Gyllenhaal) un elicotterista dell’esercito, ovviamente americano, in missione per conto di Zio (Sam). Donnie Darko (Jake Gyllenhaal) era una specie di eroe depresso e romantico. Adesso, in “Source Code”, Jake Gyllenhaal è un insieme di tutti questi personaggi. Anche lo specchio pare indeciso, riflettendo un’immagine che non è la sua. Prendendo in prestito la primitiva imbranataggine tipica di certi docenti (soprattutto quando sono gettati in pasto a congegni fantascientifici poco avvezzi alla loro indole), la risolutezza di certi soldati, e un viaggio nel tempo (il quale in verità assomiglia in questo caso più a un loop che a un wormhole), l’eroe della storia (presentato attraverso l’uso di tanti nomi per confondervi un po’) è convinto di partecipare a una simulazione, probabilmente ideata da quel manipolo di burloni dei suoi amici (?) militar-governativi. E così se ne sta bel bello sul treno delle 7.40, nell’ora di punta, e gli basterebbero ancora 8 minuti per giungere verso Chicago. Solo che quel treno esploderà, e lui dovrà scoprire, uscendo e rientrando continuamente da quei brevi giri d’orologio, chi è l’attentatore e come ha fatto a far saltare in aria quel maledetto convoglio blindato (sul quale non funzionano i freni di emergenza, deprecabili tecnici USA!).
Partendo da presupposti che tirano in ballo la fisica quantistica, il calcolo parabolico, le mappe sinaptiche e altre cazzate del genere, lo spaesamento del povero Gyllenhaal si manifesta attraverso aggressioni gratuite ai passeggeri tanto che, prendendo a cazzotti un po’ tutti (neri, bianchi, gialli), prova alla cieca a evitare l’attentato. Inizialmente un po’ duro di comprendonio, non è un bel vedere mentre recita roteando gli occhi e la testa nel tentativo di risultare apprensivo. Il bello è che deve fare tutto da solo, senza l’inquinamento di tanti effetti speciali che di solito riempiono le scene di film come questo.
Tuttavia l’artificiosa “riassegnazione del tempo sta alla rassegnazione dello spettatore” come il “continuum temporale sta al cortocircuito emozionale”, in un’equazione matematica inventata qui per qui giusto per prendere in giro la protervia dello scritto. E’ troppo facile insinuarsi nell’ostinazione scientifica di questa sceneggiatura. Il film predica il valore della vita, quando non è in grado di discernere tra il suo rispetto e lo sfruttamento; oltretutto non tenendo conto dell’importanza della salute cinematografica, sempre più irrimediabilmente compromessa nelle mani di certi trascurabili figuranti.
Come in “Moon”, il sopravvalutato esordio sempre diretto da Duncan Jones, il protagonista parla con il mondo esterno attraverso un monitor, ha desideri semplici e molto umani (il tentativo di parlare col padre), e si trova chiuso in una specie di sarcofago transitorio nel quale “opera” in semisolitudine; dalla base lunare siamo passati a una capsula-tomba. Jones, figlio di David Bowie, ha il pregio di mantenere una limpidezza registica che a tratti intriga e ci avvicina a una sgradevole sensazione claustrofobica. Prima di parlare della nascita di un Autore, a mio avviso bisognerà attendere ancora: troppi riferimenti in carta carbone, deboli e un po’ inconsistenti sono stati esibiti fin qui perché si possa individuare un’impronta originale e significativa.
Ma ritorniamo all’eroe tanto citato all’inizio, che altrimenti scadono gli 8 minuti. Jake, io ti voglio bene. Sono convinto che tu sia uno dei più bravi attori in circolazione. Non farti azzerare la memoria da queste sciocchezze, non cedere alle facili lusinghe di un finale dalla lacrima artificiale: l’esplorazione spirituale e l’approfondimento morale arrivano troppo tardi per emozionare davvero. La prossima volta scegliteli meglio i film, Donnie mio caro.
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