Regia di Wim Wenders vedi scheda film
L'approccio ad un film come Pina è colmo di timori, che già s’insinuano al solo pensiero di dover affrontare la difficoltosa visione di un genere mai troppo amato al cinema come il documentario. Il solo sentire poi il termine “teatrodanza” acuisce la soggezione, che è indeterminata (e indeterminabile) se se ne ignora la natura, o, perfino, l’esistenza. E’ il tipico caso in cui si parla di operazione necessaria, doverosa, volta a celebrare e far conoscere una figura di rilievo, ma che non ha certamente quell’appeal occorrente ad attrarre le masse. Peccato. Sì, perché, a proiezione avvenuta, non si può che prendere atto di quanto siano infondate e puerili certe paure, (auto)alimentate dall’idea di esplorare qualcosa di “diverso“, di “altro”, confuso nel flusso di omologazione da cui - va detto - ci piace farci avvolgere.
Wenders non svolge un mero compitino con cui narrare la vita di Pina Bausch, anzi, andando oltre la superficiale e asettica esposizione biografica, c’immerge nel suo mondo, ponendoci al centro della scena, ovunque sia, a respirare gli spostamenti progressivi del linguaggio: il linguaggio del corpo - scosso da fremiti evocativi e liberi, complessi ancorché poco comprensibili - che si libra, ispirato e (in)cosciente, in quella perpetua agitazione nevrotica che è la coreografia della vita. Che è fatta di cicli (le stagioni), di quotidianità (le vie cittadine), di ostacoli sia naturali (l’acqua, la roccia) sia artificiali (le sedie) che la danza può insegnare a scalare, oltrepassare, “vivere”. E’ la danza un mezzo di espressione del proprio io, giunge lì dove la parola esaurisce il suo valore, squarcia quelle barriere automatizzate che impediscono la piena consapevolezza di sé e della propria libertà, aiutando a relazionarsi in armonia con la natura e gli ambienti circostanti e soprattutto con gli altri. Corporeità che si svela e si rivela per mezzo di movimenti vigorosi, estremi, assurdi, articolati, ipnotici, che esplorano limiti ed espandono facoltà. Fisicità che vivifica l’anima.
Con le rappresentazioni di alcuni spettacoli (tra cui quel Café Müller che fece incontrare il regista e la Bausch), inframmezzate dalle interviste “mute” di allievi e prosecutori (le cui voci si ascoltano fuori campo) e da brevi (ma significativi) documenti filmati di Pina Bausch, Wenders offre un ritratto sincero e coinvolgente dell’artista, riuscendo bene a raffigurarne il pensiero e il lavoro, e, cosa ancor più rilevante, a trasmetterne la filosofia, la passione. I ballerini, per usare le parole di uno di loro, sono colori che lei usava per creare dei quadri, vere opere animate e pulsanti, sincere, trasudanti una visione lucida e al contempo folle, e sempre volta a provocare reazioni all’inattiva, spenta umanità varia, al grido di quel “Danziamo, danziamo, altrimenti siamo perduti” che è anche l’emblematico sottotitolo del film.
Pina è (anche) una lezione, imperdibile, di regia e montaggio (da menzionare assolutamente il balletto con tre gruppi di età differenti). Ad eccezionali riprese in profondità si uniscono magnificamente la precisa descrizione dei particolari di scena e un’elaborata e spettacolare resa dinamico/concettuale dei passi, dei movimenti della danza nella dimensione spaziale, dando, inoltre (e finalmente), significato compiuto all’uso del 3D, finora ad esclusivo privilegio del cinema-videogame. La costruzione visiva è superba e potente, tanto che le percezioni sensoriali che effonde regalano allo spettatore un’esperienza straordinaria.
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