Regia di Bill Condon vedi scheda film
Se neppure un regista quotato come Bill Condon riesce a dare un tocco di personalità alla storia di Bella e Edward, significa solo una cosa: Twilight è geneticamente così, brutto, immobile come un non morto nella confezione scintillante e fighetta ma marcio dentro. Non ci si poteva attendere altro, comunque. Ormai l’imprinting (leggi: le consegne dei produttori) è molto chiaro. Twilight è un brand che si tramanda come un virus e rimane tragicamente uguale a se stesso. Ramazza soldi e popolarità senza aggiungere nulla ne’ al genere (quale genere poi?) ne’ alla saga stessa.
Tuttavia piace questo disgraziato melò dei novelli Romeo e Giulietta in salsa emo, fissi nella loro elucubrata passionalità che non coinvolge mai le carni e anche quando lo fanno, in questo capitolo, il trionfo del senso di colpa castrante soffoca gli istinti in nome di una purezza ideologica che replica in chiave new romantic una pesante cappa di moralismo cattolico. Twilight è tagliato su misura sui tempi e sull’estetica televisiva il cui pubblico, anestetizzato da serate di amorazzi sbattuti in prima serata e seguiti dal serraglio di umanità berciante del grande fratello, è la base su cui è fondato il successo del film.
Stroncarlo non serve. Twilight non ha pretese di autorialità o di ergersi dalla medietà. Anzi ribadisce con fierezza il proprio scarso valore elevandolo a virtù e adeguandosi in pieno a quella richiesta di banalizzazione dei sentimenti e chiarezza tautologica della loro esposizione reclamata da un pubblico tanto scevro da qualsiasi capacità di critica quanto adolescenziale come maturità emotiva.
Non è una colpa, è che li crescono così gli spettatori. Ammaestrati ad una visione rassicurante e carica di metafore morali, supportate da una messa in scena che non lascia alcun dubbio sulle personalità dei personaggi, mai trasfigurati in chiave metafisica dalle ombre, piuttosto illuminati a dovere e scontornati sullo sfondo a ribadire la piena corrispondenza tra l’essere e l’apparire. Non ci devono essere dubbi, turbe, sospetti. Tutto è risolto nel campo e controcampo esplicativo, due battute come slogan, rarefatte e povere come sms, come chat di un social network. Le pose posticce, il trionfo del trucco kitsch, non c’è alcuna ironia in questo melò da camera plasticamente drammatico, enfatico. Tutto è fermo, immobile, morto. E’ proprio questo che piace, il vampiro che non morde, il sesso che non sporca, il sangue che non c’è e se c’è è servito in barattoli di carta da fast food.
C’è una scena girata bene: flashback al 1935, Edward al cinema guarda La moglie di Frankenstein di James Whale. Bill Condon con Demoni e Dei (1998) aveva narrato la biografia di Whale facendo rivivere sullo schermo Elsa Lanchester e Colin Clive, eroi di quel magnifico film. Come dire, ci sono anche io in questo pastrocchio che mi hanno affibbiato.
I licantropi quando si (ri)trasformano in umani improvvisamente si ritrovano i vestiti addosso.
Milioni di mosche non possono sbagliarsi. Diceva Allen.
One shot, one kill. Belle si trucca e si mordicchia il labbro. E dai che dopo tanto annusare la bella Bella e Edward che un po’ dello stupore ipnotico di quello che fu mani di forbice ce l’ha, alla fine si danno. E si sa che dopo tanto penare, l’erogazione del seme costretto in pressione per tre-film-tre non può che produrre un effetto collaterale fastidiosamente invasivo nelle coppiette alle prime copule. Un erede concepito a tre da un non morto, una non viva e una sceneggiatrice in coma.
Belle sfiora le tende e questo le procura una temporanea interruzione dell’impulso elettrico sinaptico. Lo sguardo si opacizza e la scucchia si smobilizza dalla sede in un’espressione di abbandono melanconico molto simile ad un attacco di piccolo male epilettico, tipico dei videogamer in trance al penultimo livello di uno stroboscopico firs person shooter.
Traduzione dei pensieri confusi dei due sposini reduci dalla prima notte di nozze, lei coi lividi perché lui è vude.
Non posso farlo ancora, ti farei male.
Nonono guarda, coso, Edward, stantuffami con veemenza che mi piace una cifra.
No, non posso farlo.
Sono il tuo Frejus.
Non posso.
Eccheccavolo….
Non si vede che sono felice? Domanda di Bella. No, in effetti no, verrebbe da dire visto che l’espressione psico-imbronciata se la trascina dietro dai titoli di testa di tre anni fa. Ma Edward ha le palle non morte e non se la sente di dire una cosa così maledettamente forte.
Così, su un’isola deserta da sogno, una coppia di sposini giovani e gagliardi ingannano l’attesa giocando a scacchi. Lui obliquo e bianco, lei che non ha mai visto Baby Killer di Larry Cohen perché altrimenti ingoierebbe tutto il blister, bugiardino compreso, di RU486.
L’allure ferormonica sparsa nell’aria inturgidisce anche il lupastro dagli addominali scolpiti e lo sguardo torvo di quello che non riesce a leggere l’orario dei treni e rischia di perdere la coincidenza. Così s’incazza e si trasforma – puf- in una palla di pelo colle zanne
Bau. Baubau. Dice al branco ostile. Bau. Fortunatamente i pensieri sgorgano dalle menti obnubilate dall’essenza licantropa doppiate in idiomi comprensibili ai babbani in sala (oh, quello era Harry Potter…) altrimenti sai che cagnara in computer graphics. Bau.
Questo matrimonio non s’ha da fare. Manzoni ulula, lupo ululi. Li che chiede a Bella se è viva o morta. Non lo sa. Non si capisce. E questa la dice lunga sulla gaia vitalità espressiva della fanciulla.
Belle sorride e si mordicchia un altro labbro. Quando Belle sorride sembra accovacciata sulla turca alle prese con una deiezione particolarmente ostica. Eppure la amano.
Belle, noi ti salveremo. Anche noi. Ma da chi? Da voi. Beh, anche noi. Dobbiamo difenderla da noi. E voi. E poi? Le mani. Le tue. E tu. E noi. E lei. Fra noi. Vorrei. E lei adesso sa che vorrei. Le mani, le sue.
In effetti Patty Pravo ora come ora, avrebbe il physique du rôle della badante vampira della famiglia Cullen.
Riassunto: scene da un matrimonio nella versione depressa di Sex & The City. Campi controcampi, vestiti e ralenti. Il padre di Belle che sembra l’unico sopravvissuto dei Village People, con quei baffetti. E poi ancora campi e controcampi. Impianto drammatico da telenovela, alla cerimonia manca solo la famiglia Forrester. Poi il viaggio di nozze in Brasile e sull’isola deserta ove il fattaccio si compie. Ragionando sul titolo, Breaking Dawn, la rottura dell’alba o si può intendere come una metafora della deflorazione, l’alba della vita di Belle, la sua purezza, viene spezzata dall’ingresso dell’esangue verga dell’emofago amante. O forse no.
Poi nasce la bimba, mezza e mezza. E durante il parto, che è durato più della gestazione, si vede il sangue. Orrore. Fine prima parte. Ah, ce n’è una seconda? Orrore.
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