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La pelle che abito

Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film

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La recensione su La pelle che abito

di Decks
6 stelle

Almodovar tenta un azzardo nel thriller con un approccio metodico e teso; il tutto riesce a metà rendendoci un film labile in cui la femminilizzazione è strumento horrorifico, ma c'è dietro la mano di un artista che persino lontano dal suo genere se la cava alla grande. Ciononostante, chissà se Almodovar si spingerà di nuovo oltre le sue commedie.

Lo stile di Pedro Almodovar è ormai conosciuto a livello internazionale; il cineasta ispanico ha allietato le serate di mezzo mondo con le sue storie atipiche e passionali, dimostrando un'apertura mentale di cui ben pochi artisti del suo calibro hanno avuto il coraggio di mostrare.

Ecco però che nel 2011 Almodovar va oltre, si discosta decisamente dal suo messaggio e sforna forse, non la sua opera migliore, ma una delle più discusse, allontanandosi dalla quotidianietà delle sue "donne sull'orlo di una crisi di nervi" e andando più verso il noir e la disperazione del cinema tedesco, motivo per il quale esso sarà uno dei suoi più grandi flop.

 

 

Il pubblico si ritrovò qualcosa di lontanissimo dall'estetica solitamente utilizzata da Almodovar: al posto dei sorrisi o le lacrime scaturite da inaspettate svolte in una storia d'amore, troviamo soltanto angoscia e disperazione.

Siamo più dalle parti de "La Mala Educacion" se vogliamo dirla tutta, ma al contrario, qui il regista non dà un attimo di respiro alla cinepresa inquadrando continuamente le zone d'ombra dell'essere umano, al punto tale che per molto tempo il buon Almodovar aveva in mente di girarlo in bianco e nero, fatto, questo, che lo avrebbe ancora più avvicinato dopo i tanti innumerevoli rimandi verso il linguaggio di Fritz Lang.

Accesa e caliente vita di Madrid? Neanche per sogno: qui si viene catapultati in una realtà claustrofobica, chiusi ermeticamente in una grossa villa spagnola da cui uscire ci è proibito e ci trasmette un senso di sintetico e artificioso, ben lungi dall'accogliente e affascinante appartamento di "Atamé", persino una specifica scena, nonostante la somiglianza con quest'ultimo, viene posta in maniera del tutto differente. In alcuni momenti ci troviamo persino dalle parti dell'home invasion più crudo e straziante facendo accaponare la pelle e rendendo una tensione che raramente è di casa nella filmografia di Almodovar.

 

Ed i personaggi e la sinossi? Scordatevi i sorrisi, a volte anche ironici, che scaturivano dalla depressione o dalle sorprese della vita, qui gli aggettivi più adatti sono marcio e putrefatto: il lungometraggio già dall'inizio è misterioso ed enigmatico per poi precipitare in un baratro senza uscita popolato da personaggi tremendi e colpevoli, senza una morale, dediti al compimento di sé stessi o della vendetta, il tutto culminerà in una metamorfosi, rassomigliante più al cinema di Cronenberg che alle transgenesi gioconde almodovariane.

Lo stesso Banderas, pupillo di Almodovar, abbandona i ruoli da geloso omosessuale e paranoico amante per un'interpretazione fredda e spietata in cui dimostra di cavarsela anche in parti più drammatiche, lo stesso vale per Elena Anaya magnifica nel renderci un personaggio sperduto, il quale indossa una maschera la quale non può più dismettere e che sente (e sentirà) non sua, ma in cui dovrà rimanere per il resto dei suoi giorni.

 

 

Simbolicamente e tecnicamente siamo a livelli superlativi, merito anche di una fotografia di Jose Luis Alcaine la quale è degna di nota visto che rende al film la giusta idea di oscurità e disperazione con i suoi alti contrasti e i colori bianchi ospedalieri.

Il problema è che Almodovar compie un semi-passo falso: egli non sembra trovarsi a suo agio in un ambiente cupo come questo, al punto tale che non sempre riesce a sintetizzare bene una narrazione che corre troppo all'impazzata finendo per sfociare nel più banale dei revenge movie lasciando ben poco allo spettatore se non un certo messaggio sulla sessualità interessantissimo e davvero poco affrontato dal mondo del cinema.

Ragion per cui il film in questione più che essere un film DI Almodovar è bensì un film fatto da Almodovar: ciò significa che possiede tutta la sua maestria tecnica, innumerevoli rimandi letterari quali Richard Dawkins su tutti e una visione modernissima dell'erotismo, ma la sostanza è ben poca e l'interesse nella vicenda va sempre più a scemare, protraendosi in quello che è un film già visto e che lascia ben poco, avvicinandosi più che a Lang e Godard, come avrebbe voluto l'autore, a Fincher.

Un esempio lampante è il finale: Almodovar decide di stravolgere il finale del romanzo da cui prende la sceneggiatura ed immediatamente si perde in qualcosa di sconclusionato, indigesto e addirittura contrario al pensiero almodovariano sull'accettazione del sesso di appartenenza, qui visto come mezzo di tragedia anziché mezzo di passaggio, volto esclusivamente a rendere un'ultima scena forzatamente mozzafiato.

 

In conclusione: Almodovar tenta un azzardo nel thriller nerissimo con un approccio metodico, inusuale e teso; l'operazione riesce a metà rendendoci un film labile, scontato e in cui la femminilizzazione è strumento horrorifico, ma sicuramente c'è dietro la mano di un artista a tutto tondo che persino lontano dal suo genere confeziona un lungometraggio il quale batte di gran lunga innumerevoli altre pellicole made in america. Nonostante ciò chissà se Almodovar tenterà mai di andare ancora oltre.

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