Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
Quando un grande regista invecchia, specie se è stato prolifico e sempre su un livello di qualità molto alto - Woody Allen insegna -, prova sempre a cambiar pelle. E il vecchio fan, ovviamente, non sta più nella pelle. Ecco uno dei tanti problemi di La pelle che abito: dopo il noiosissimo Gli abbracci spezzati, saggio scolastico e citazionista sul noir, Pedro si butta sul thriller (melo)drammatico. E rifà, male, se stesso. Con poca autoironia, visto che dalla battuta godibile su Vera Cruz al finale paradossalmente lieto (direbbero alla Tv svizzera di Mai dire Gol «tutto è bene quel che finisce bene»), passando per “el Tigre”, tutto appare forzato. Come le sceneggiature della vecchiaia almodovariana, alla ricerca di un perfezionismo freddo, di una circolarità chiusa, quasi a scusarsi del proprio meraviglioso caos giovanile. Si è rinchiuso nel genere, quando prima ne sfondava i confini, usa se stesso come un feticcio e il proprio cinema come un puzzle da rimontare diversamente ma sempre con gli stessi tasselli. Un chirurgo plastico (Banderas, inadeguato) con i nervi a fior di pelle - gli si è bruciata la moglie, gli han quasi stuprato la figlia - ha deciso di vendicarsi non contro il colpevole, se stesso, ma contro un ragazzo che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato con la ragazza sbagliata. Forse per un’antipatia a pelle. Lui, ovviamente, venderà cara la pelle, Elena Anaya ci mostrerà generosamente la sua. Il punto è che il taglia e cuci del protagonista è quello di Pedro: inutile, estetizzante, ostinato.
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