Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
C’è un posto, dentro di noi, inaccessibile agli altri. C’è un dentro, distinto dal fuori. Abitare e apparire. L’apparenza è epidermica. Trama e significati intricatissimi per il nuovo film di Almodóvar (“un film di Almodovar” appare nei titoli di testa, quasi che il solo cognome fosse sinonimo di riconoscenza). Un horror, un thriller, un noir o niente di tutto ciò?
Innanzitutto l’inconfondibile segno pittorico, per mezzo di una fotografia/cartolina della Toledo contemporanea, e i caratteristici tratti di regia, almodovariani. In essi si svolge la vita di Robert Ledgard, un chirurgo plastico che ha perso la moglie in un incidente d’auto che l’ha completamente carbonizzata. Dopo anni di ricerche, il medico scopre il segreto per la creazione di una pelle artificiale, capace di resistere alle bruciature e alle punture degli insetti. Robert ha avuto bisogno di una cavia e non ha esitato a sequestrare il ragazzo che ha tentato di stuprargli la figlia, privarlo dei genitali ed obbligarlo a sopravvivere in un’altra pelle.
Sin dalle prime immagini, con la bellissima ragazza che fa yoga, come fosse una ballerina di Pina Bausch, modellandosi essa stessa come una scultura di Louise Bourgeois, è evidente che siamo dinanzi ad un regista che ormai fa dell’arte, a trecentosessanta gradi, la sua esistenza. Pur tuttavia non da esteta.
Quasi non fosse assolutamente indispensabile comprendere ciò che avviene e si vede. E’ quanto accade per almeno i primi venti minuti di visione. Infatti, sono i flashback, in un intento di spiegazione che non è mai così lineare, a determinare una sorta di scommessa continua attori/spettatori, in cui l’unica regola che conta è fidarsi, perché tutto torna. Fin nei minutissimi particolari. Nel frattempo c’è quell’ammaliamento ch’è tipico del cinema di Almodovar, la cui immaginazione travalica ogni limite. E allora è possibile che il grottesco accoppi il surreale, attraverso il gioco di una scrittura che qui più che in tutta la cinematografia di Almodovar appare come un meccanismo perfetto. Si seziona, modella, divide, si taglia e articola con chirurgica perizia. L’estetica rende l’impianto visivo elegante. La macchina da presa diventa come un bisturi con l’unico compito di rendere la chirurgia estetizzante. E si ritorna al primo Almodovar.
Battute come “Mi chiamo Vera. Vera Cruz” strizzano l’occhio ad un cinema di genere, denso di continui colpi di scena epidermici, quasi, poiché proprio tale battuta è un richiamo a quando lo stesso regista conosce in profondità, a causa della rinuncia della sua attrice feticcio, Penelope, che era stata pensata per il ruolo, finito poi in sorte alla bellissima e molto brava Elena Anaya. Torna Antonio Banderas, dopo dodici anni (Legami!) a lavorare con il regista castigliano, regalandoci una figura di novello Frankeistein, uomo algido, misurato, che nasconde in sé un mostro, una crudeltà che neppure il più grande dolore riesce a giustificare.
Tanti, troppi, i riferimenti all’oggi: dalla medicina estetica, alle mutazioni genetiche, ma soprattutto riflessioni sul ciò che accade nella parte più nascosta, abitata, dell’essere umano, che non è solo corpo e pelle. Natura ibrida, in un mondo e tempo in cui non c’è spazio per l’espiazione e il perdono, ma solo la possibilità di una trans-genesi, come desiderio di propria ricreazione, verso quella “pazzia viscerale”, di cui si parla nel film, mai del tutto capace di liberarci da quel rivestimento che ci fa apparire sempre quello che non siamo.
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