Regia di Rob Reiner vedi scheda film
Ben fatto, per quanto l'orrore del libro resti non replicabile.
«Per lei Misery e i personaggi che la circondavano erano tutte persone reali, in carne e ossa»
(da Misery, Stephen King)
Un’ipotetica Annie Wilkes in carne e ossa, fanatica dei libri di Stephen King (la sua ammiratrice numero uno), non avrebbe preso benissimo la trasposizione cinematografica di Reiner, diciamo così. Premetto che non vivrei troppo tranquillo se esistesse davvero una Annie Wilkes nella vita reale – nel caso, a Reiner consiglierei di evitare accuratamente di passare per il Colorado, sia mai che Annie non lo obblighi a ri-girare il film sinché non risulti di suo garbo – ma allo stesso tempo, mi fermerei ad ascoltare le argomentazioni di Annie a sfavore di questa pellicola del ’90, perché Annie, pur nel suo modus cogitandi molto naïf, di meccanismi narrativi ne capisce assai. Ecco, Annie mi direbbe che quando si effettua una trasposizione sul grande schermo di un’opera di narrativa, si verificano due tipi di fisiologiche discrepanze rispetto al testo scritto: piccole discrepanze e grandi discrepanze, le prime veniali e perdonabili, le seconde un bel po’ meno digeribili. Togliamoci subito il dente: l’incongruenza più evidente è che il film di Reiner si prende parecchie escursioni al di fuori di quella maledetta stanza, interrompendo più volte una tensione che invece nel libro cresce vieppiù in un climax insostenibile. Nel libro abbiamo solo Annie e Paul, Paul ed Annie, uniti a filo doppio da un rapporto di reciproca dipendenza: nella pellicola ci sono troppi più personaggi che, pur non interagendo mai – almeno questo, fiuuuu – coi nostri due, inquinano ed occupano abusivamente uno spazio che non compete loro. Si perde quella sensazione di e(sc)lusività del dramma dello scrittore: nel vedere tante persone che cercano Paul, ci sembra quasi che esse condividano il suo problema, che egli non sia solo ad affrontarlo come invece è. C’è poi una seconda ingente discrepanza, che però appare assai più inevitabile nel passaggio dalla carta stampata alla pellicola. Il racconto cartaceo si configura come un disordinato stream of consciousness dei pensieri di Paul. É sempre Paul a immaginare, ingigantire, somatizzare, vivere nell’incubo: Annie la vediamo deformata sotto la sua lente di ingrandimento, Paul la disumanizza e la idealizza perché la percepisce come lontanissima da sé pur essendo sempre a stretto contatto con lei. Paul riesce al più a cogliere la natura delle sue follie, ma mai la dimensione, mai l’abisso. Il baratro della malattia mentale di Annie appare tanto più profondo quanto più viene filtrato dalla (in)coscienza di Paul: un espediente impensabile con lo strumento cinematografico. Sul grande schermo Annie e Paul sono sullo stesso piano, Annie cessa di essere la Dea immortale, severa e implacabile che può disporre della vita dello scrittore come vuole e quando vuole, ma ritorna ad essere una donna, gravemente schizofrenica, ma pur sempre un essere umano.
Reiner scantona e soprassiede anche sui capitoli più immaginifici del Re dell’orrore, ma qui siamo già nel territorio delle piccole discrepanze. Non è minimamente replicabile il capitolo (lunghissimo) nel quale Paul legge sul diario delle memorie di Annie la successione di tutti i suoi crimini passati, tra accessi alternati di riso e di terrore liquido. Assente l’agghiacciante episodio dell’uccisione del topolino, che ci chiarifica la visione deteriore del mondo di Annie, suddiviso in sporche burbe, povere bestioline e… Annie. Assente in generale tutto il repertorio di aforismi di Annie sulla vita, che va molto oltre la frasetta tratta dal libro di Misery, ma abbraccia campi come la sociologia, la psicologia, la narratologia, la giustizia (soprattutto per quel che riguarda le colpe e le pene), persino l’escatologia. Annie è un trattato sulla follia umana. Nel film vanno anche sfumandosi la volatilità dell’umore di Annie e la disinvolta arbitrarietà con cui impartisce le sue punizioni (che nella sua deviazione mentale sono tutte nell’interesse di Paul, per proteggerlo). Lo spettatore non è in grado di desumerle nella loro mostruosa interezza.
Per concludere, perché vale la pena di guardare Misery, a meno che non vi chiamiate Annie Wilkes, beninteso? Perché Kathy Bates è Annie sputata e James Caan è ugualmente un Paul Sheldon sputato: nonostante le piccole e grandi licenze prese dall’autore rispetto al testo originale, Kathy Bates sembra la migliore incarnazione possibile per un incubo assurdo che altrimenti sarebbe rimasto solo su carta.
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