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Shelter. Identità paranormali

Regia di Måns Mårlind, Björn Stein vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Shelter. Identità paranormali

di Spaggy
4 stelle

«Poca scienza allontana da Dio, ma molta riconduce a Lui», così sentenziava il biologo Louis Pasteur e da questo atavico presupposto sembra partire “Shelter”, giocato sull’opposizione dicotomica del più grande interrogativo dell’uomo: rispondere alle esigenze della Scienza o affidarsi alle mani della Religione?


Così come un Giordano Bruno qualsiasi, anche il reverendo Christian Moore nel 1918 per aver ceduto alle lusinghe della medicina, rifuggendo il credo religioso di una comunità fin troppo tribale, per curare un’epidemia di influenza, finì massacrato in maniera atroce: spirito risucchiato da una guaritrice e corpo martoriato con croce sulla schiena e fango in bocca per poter coprire il “rifugio”. Novanta anni dopo il rifugio è stato riaperto e come in un gioco di specchi diviene dimora delle anime di tutti coloro che hanno perso la fede. Infatti, il reverendo si muove alla ricerca di chi si è rifugiato nelle risposte che apparentemente la scienza sapeva offrire: li trova, li perseguita, li uccide e ne conserva lo spirito nel proprio corpo, assumendone voce e carattere.


A contatto con una delle tante trasformazioni entra la dottoressa Cara Jessup, psichiatra forense, che crede di trovarsi di fronte ad un caso di personalità multipla: il giovane Adam, irrequieto e violento, lascia spesso il posto al giovane David, paralizzato e mite. Ben presto, Cara sarà costretta ad approfondire la vicenda e poiché le sue conoscenze scientifiche non portano alcuna risposta plausibile, rifugiandosi nel suo motto “medico di scienza e donna di fede”, prova ad indagare nel passato scoprendo particolari raccapriccianti che metteranno a dura prova il suo già fragile sistema di credenze e che stermineranno quasi tutta la sua famiglia.


Lo spunto di partenza dello sceneggiatore inglese Michael Cooney, già autore dello script dell’interessante “Identità” di Mangold, sulla carta aveva più di una possibilità per generare un interessante innesto tra i thriller psicologici e il paranormale. Gli ingredienti c’erano tutti: visioni, personalità multiple, trasformazioni quasi demoniache, interrogativi su Bene e Male, simboli cristiani che richiamano simboli tribali, riti magici e miti paleocristiani, guaritrice santone cieca che vede attraverso gli occhi di una ragazza albina, parchi trasformati in foreste dell’orrore, sette sataniche e manipolazione tecnologica audiovisiva, psichiatria e psicologia cognitiva, luci e ombre. Il problema è che tanta carne al fuoco causa confusione nei due registi svedesi Marlind e Stein e, soprattutto, nello spettatore, che continua a perdersi tra i troppi cambi di personalità associati al giovane paziente dissociato e nel gioco tra vittima e carnefice tra lui e la dottoressa Cara. Si sfiora il ridicolo già nei primi quindici minuti, quando ci viene mostrato il primo colloquio tra i due seguito dal primo cambio di personalità: psichiatra arcaica e labile che ancora fa riferimento al fascino illusorio del test di Roshak e una telefonata come mezzo di trasformazione.


E le cose non vanno certo meglio nell’incedere dell’inspiegabile finale, dove tutti vincono e tutti perdono. Bene che si trasforma in Male e viceversa, Scienza che allontana dalla Fede e Fede che allontana dalla Scienza, nessuno in grado di aprire gli occhi e mostrare cosa fare. Si lascia un messaggio negativo allo spettatore, ogni forma di speranza è annullata: Cara non può fare affidamento né su vecchie convinzioni acclarate né su nuove conoscenze acquisite, non bastano né le nozioni mediche né le preghiere rivolte ai quattro Evangelisti e ai cinque Angeli. Si costruisce un finale aperto che dovrebbe risvegliare l’interesse in chi guarda ma che era stato già preannunciato e di conseguenza non costituisce elemento di sorpresa: il rifugio passa da un corpo all’altro lasciando la protagonista inerme, senza possibilità di scelta, colpita proprio negli affetti più cari.


Il dilemma Scienza/Fede viene costruito pian piano ma è risolto troppo in fretta e senza alcuna cognizione plausibile. Rimangono molti punti interrogativi sul perché agiscano i personaggi e sulla genesi della chiusura degli abitanti del luogo in cui “si cammina con Dio al fianco e si casca tra le braccia del Diavolo”, in cui una tribù quasi troglodita effettua operazioni a mani nude su corpi malati e ricorre al veleno dei serpenti come unguento, pittura le stanze con simboli esorcizzanti e instilla il dubbio che esistano entità ultraterrene che vanno al di là dei limiti spaziali e temporali.


Si ambienta ancora una volta il tutto nel cuore degli Stati Uniti per evidenziare il viaggio di discesa tra le tenebre ma la fotografia non ci regala mai uno scorcio dei luoghi reali in cui tutto avviene, potremmo essere nelle campagne di qualsiasi città per come ogni posto è anonimo.


Le soluzioni adottate per incutere terrore sono sempre le stesse: ombre che appaiono in filmati videoregistrati, audio sfalsato con innalzamenti di volume, fastidiose nenie travestite da ninnananne, segni che compaiono sui corpi e musica slegata dal contesto narrativo, per cui si sobbalza anche quando non si deve.


Qua e la qualche sprazzo di interesse subito smorzato: si introducono interessanti tematiche (ad esempio il senso di colpa iniziale che attanaglia Cara per aver contribuito ad un’esecuzione capitale, la violenza dei parchi notturni americani, le speranze di chi senza altri appigli si aggrappa alla medicina sperimentale, il fenomeno delle sette sataniche e la pedofilia) e soluzioni narrative (vedasi la scena in cui il fratello di Cara ricostruisce l’ombra al pc ricorrendo alle onde sonore) ma subito si cede il passo al sentimentalismo dei personaggi che banalizza il tutto.


Viene il dubbio su cosa abbia convinto una bravissima (anche in questo caso) Julianne Moore ad accettare un copione così sciatto (e che salva dal pessimo giudizio) mentre meno dubbi vi sono sulla presenza di Jonathan Rhys-Meyers che, ancora una volta, mette in scena le faccette di cui riempie il suo televisivo Enrico VIII nella serie televisiva “I Tudors”, esasperandole, e mortifica anche i momenti di tensione ricorrendo a espedienti fisici mille volte visti (contorcersi il collo, come un riposseduto qualsiasi, e giocare sul suo sguardo azzurro questa volta poco funzionano). 

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