Regia di Alister Grierson vedi scheda film
Il 3D al posto dell’immaginazione? No, grazie. Le nuove tecnologie visive procurano una vertigine puramente meccanica, che nulla ha a che vedere con l’emozione della scoperta. Gli effetti prospettici di una voragine, per quanto questa possa essere gigantesca e contorta, non bastano a fare sensazione. Jules Verne ci ha insegnato che il viaggio nelle viscere della terra o negli abissi marini è interessante solo se è un percorso verso un ignoto che piano piano si svela: la lotta contro l’acqua e la roccia ed il continuo sforzo per riuscire a respirare sono, invece, di per sé, un cimento atletico che stuzzica davvero poco la fantasia. Questa vicenda di uomini, sonde sottomarine e mute da sub, più che un’avventura, sembra il cantiere scientifico che la prepara: nulla è concesso alla magia dello spettacolo come prodotto finito, che proietta le sue illusioni sul proscenio, lasciando in ombra i travagli del dietro le quinte. Al contrario, l’impressione è quella fredda che si ricaverebbe se, durante le riprese per un film, l’obiettivo inquadrasse le attrezzature del set, anziché l’azione interpretata dagli attori. In questa storia, fatta di misurazioni e stratagemmi per la sopravvivenza, il tono è quello asciutto e tecnico di un laboratorio, in cui, tra un esperimento e l’altro, si confrontano esperienze, tesi e congetture, ed anche le questioni di vita o di morte si decidono col bilancino del pro e del contro. La durezza della sfida primordiale si riduce, così, ad un confronto puramente razionale con le varie situazioni: uno studio - anziché una guerra - nel quale, per di più, viene a mancare anche il beneficio dell’originalità. Questo Sanctum annoia proprio tanto con la sua verbosità da documentario, che arriva a invadere anche il chiacchiericcio dei tempi morti, uccidendo sul nascere ogni tentativo di umorismo, e bloccando la strada ad ogni eventuale diversivo.
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