Regia di John Lasseter, Brad Lewis vedi scheda film
Ciò che rende le animazioni Pixar superiori ai concorrenti (Dreamworks et similia) è l’ttenzione alla scrittura cinematografica, dall’elaborazione di una sceneggiatura briosa e intelligente alla conseguente elaborazione di uno stile e di un film classicamente coerente. Pixar è sempre stato un marchio di garanzia, non solo per la qualità tecnica dell’elaborazione digitale (comparabile agli altri), quanto, soprattutto, per l’inventiva e la grazia della pellicola finita che, quasi ogni volta, si traduce in un prototipo cinematografico, attento all’apporto della citazione come ogni film, ma scrupoloso nel non appesantire di vincoli e di riferimenti un immaginario innovativo.
La Dreamworks, al contrario, ha sempre preferito privilegiare i rimandi, non solo costitutivi della struttura narrativa, come in Shreck che rielabora i clichè del mondo delle favole, ma con apporti musicali volutamente referenziali per l’uso di canzoni note, di costanti strizzatine d’occhio ad altro cinema o al mondo televisivo. Ne consegue un immaginario di riflesso, di seconda mano, che aiuta l’immedesimazione del pubblico nel riconoscimento del riferimento e la complicità imposta dall’ammiccamento all’intero prodotto, non all’immedesimazione con il personaggio come in ogni vero film.
La “sequenzializzazione” dei progetti rischia così di tradire la peculiarità della Pixar obbligandola alla costante rilettura del già detto, spesso con sufficiente autonomia da non necessitare di un approfondimento ulteriore, sospinto quindi solo da esigenze commerciali, che sono però l’essenza dell’industria e, pertanto, della fabbrica del cinema americano. Se Toy Story riusciva a rendere piacevole il doppio ritorno nella cameretta d’infanzia del protagonista, a Cars il tentativo di riciclaggio del materiale risulta faticoso. Già più debole degli altri film Pixar, il primo Cars trascendeva la specificità statunitense dell’ambientazione e del contesto con l’adesione ad un immaginario vagamente western, coerente e divertente, su cui inserire il tipico tracciato del rito di passaggio.
Cars 2 dà per scontato il primo film e devia da esso spostandosi in tutto il mondo (Giappone, Francia, Italia) e trasferendo il primo piano un caratterista (Cricchetto), preferito al protagonista classico (Saetta McQueen). La variazione non fa che accentuare i difetti del primo film che, oltre al divertimento grafico di un universo ‘automorfo’, non riusciva in una reale reinvenzione narrativa. La moltiplicazione di scenari e personaggi, tipica strategia di diversificazione e incremento da sequel, non aggiunge molto a Cars 2 e il ritmo frenetico degli inseguimenti immobilizza la trama nella meccanica sterile dell’azione. Tutto rimane in superficie in un film di sola facciata, dalla carrozzeria ricercata ma dal motore truccato, come i bolidi Nascar o il deuteragonista, quel fuoristrada che nasconde un trauma da auto di seconda categoria che lo disegna malvagio. La sottotrama ecologista, allora, con invettiva anticapitalistica e apparente lungimiranza obamiana diventa, pur nell’encomiabile professione di intenti, un semplice pretesto per costruire (e vendere, con ottimo occhio al merchandising) una pista giocattolo su cui far correre i bolidi animati di buone intenzioni.
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