Regia di J.C. Chandor vedi scheda film
La lentezza nell’emergenza. Le sorti di una importante società finanziaria e, di riflesso, quelle del mercato globale si decidono in una notte. Però nessuno corre, nessuno urla. Si resta nell’attesa, e si parla sottovoce. Il tempo stringe, ma tutti conservano una calma artificiosa, racchiusa nell’amarissimo boccone della certezza che un’epoca si sta chiudendo, e la fine sta arrivando, come una frana rovinosa, che trascinerà con sé un mare di sensi di colpa. Una sera qualcuno si accorge che in un pendrive, affidato da un dirigente appena licenziato ad un suo giovane assistente, si nasconde una tremenda verità: il patrimonio dell’azienda è destinato a perdere rapidamente valore nell’arco di alcuni giorni, causando una perdita di immani proporzioni. Occorre agire in fretta, e vendere tutto, prima che all’esterno si avvertano i primi segnali dell’imminente catastrofe. L’operazione avverrà, all’indomani, circondata da mille dubbi e da profondi disaccordi tra i vertici della società, sbrigativamente rabberciati da squallidi compromessi e crudeli regolamenti di conti. La frenesia non è nell’azione, bensì nel pensiero, che, nel silenzio e nell’apparente tranquillità della diplomazia, compie giri vorticosi, prima di andare spietatamente a segno, con risoluzioni che aggirano i sentimenti e sopravanzano la morale. La strategia della sorpresa impone di tacere, di non anticipare le mosse, di ridurre al minimo i movimenti che precedono il colpo finale. Nelle poche ore che separano il momento della scoperta della verità dall’inizio della grande battaglia, tra i dirigenti della società si svolge, su scala ridotta, il cinico gioco che, di lì a poco, sarà messo in pratica ai danni del resto del mondo: una partita spietata, nella quale bisogna essere i primi ad agire, per poter essere gli ultimi a sopravvivere. La tensione è prodotta dall’attenzione a non sbagliare, perché le circostanze richiedono estrema precisione nell’intervenire a favore o contro, nella scelta dei nemici e degli alleati, di chi è bene salvare e di chi, invece, è necessario eliminare. Nella penombra degli uffici deserti, in cima ad un grattacielo di Manhattan, la consistenza torbida e densa del sotterfugio si sposa alla limpidezza dell’ingegno, mentre la compostezza coincide col desiderio di non scoprirsi mentre si è intenti a prendere la mira. In mezzo a tanta eleganza di comportamento e finezza dialettica, il denaro finisce per apparire come una questione pulita e innocua, una convenzione cartacea che passa quotidianamente di mano, mietendo solo vittime virtuali, e consentendo così al genere umano di mantenere vivi i principi della civiltà, anziché costringere gli individui ad uccidersi a vicenda per procurarsi qualcosa da mangiare. Il meccanismo può restare in piedi soltanto finché il numero dei vincitori è uguale al numero dei vinti. Anche una crisi di dimensioni cosmiche fa parte di quel fragile equilibrio, che prevede continui spostamenti dell’asse, e quindi incessanti capovolgimenti della situazione: per restare dal lato giusto, ci si deve di volta in volta spostare, nella direzione in cui il vento incomincia impercettibilmente a spirare. La storia si prepara, nell’ombra, quando la tempesta non è ancora scoppiata: l’aria sembra ferma, lassù, e tutti, infatti, trattengono il fiato, mentre la ragione, tra un respiro e l’altro, matura le sue tattiche, che non possono permettersi di fallire il bersaglio. Margin Call è un film intrecciato con le tenui fibre dell’inganno, che reggono soltanto se conservate al freddo, al riparo dalla luce del sole. Su questo delicatissimo tessuto, la recitazione magistrale di tutti gli attori principali riesce a volteggiare in punta di piedi senza infrangerlo, regalandoci un esempio di ottimo cinema drammatico, in cui l’espressività raggiunge il culmine negli attimi nei quali la parola si trattiene, per lasciare il posto al brivido del sottinteso.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta