Regia di William Monahan vedi scheda film
Mitchell, uscito dal carcere dopo un paio di anni scontati per aggressione, decide di cambiar vita e abbandonare il mondo della criminalità. Le sue buone intenzioni sono, però, messe da parte a causa dell’amicizia con Billy, scagnozzo del boss Rob Gant e che opera come usuraio nei quartieri della middleclass londinese. Nel giro di poco tempo, Billy convince Mitchell a seguirlo in un paio di missioni dedite al recupero di alcuni prestiti, missioni che non sempre volgono al meglio, come la visita a una giovane donna di colore che scatena uno scontro tra la malavita locale e un gruppo di criminali neri. A causa del coraggio mostrato durante tale occasione, Mitchell entra in contatto diretto con il pericoloso Rob Gant che vorrebbe arruolarlo tra i suoi uomini di fiducia.
Nel frattempo, mantenendo vive le speranze di un cambiamento radicale, Mitchell riesce a trovare un lavoro pulito per conto di una famosissima attrice, Charlotte, momentaneamente lontana dal set per via di una crisi personale in seguito ad uno stupro e ossessionata dai paparazzi che le circondano l’abitazione alla ricerca disperata di una nuova foto e di un nuovo pettegolezzo. Mitchell deve occuparsi di alcuni lavori di routine, come la manutenzione dell’abitazione, e di tenere lontano ogni intruso, finendo con l’essere una guardia del corpo atipica per l’attrice, il cui unico amico è Jordan, ex bimbo prodigio dello spettacolo e ora produttore, dopo anni di dipendenza da sostanze stupefacenti. Jordan divide l’abitazione con Charlotte e le fa quasi da tutore, preservandola da ulteriori traumi dovuti ai continui tentativi di invasione da parte dei media intenzionati a scoprire il perché del momentaneo ritiro della donna dalle scene e del divorzio tra lei e il marito.
La vita di Mitchell è costellata da altre due importanti figure di contorno: il barbone Joe, quasi un punto di riferimento sotto i tunnel della metropolitana di Londra, e la sorella Briony, quasi una figlia da accudire per via della debolezza psicologica che la porta a concedersi facilmente in cambio di denaro. Ed è l’uccisione, in seguito ad un’aggressione immotivata da parte di due adolescenti, di Joe che porta Mitchell a riprendere le armi in mano in un vortice di violenza, destinato a culminare nello scontro diretto tra Mitchell e Gant stesso.
Difficile riassumere in poche parole la trama complicata e articolata dell’esordio dietro la macchina da presa dello sceneggiatore William Monahan, premio Oscar per il copione di “The Departed” di Martin Scorsese e autore che ha collaborato con Ridley Scott in “Nessuna verità”. L’impressione è che per far colpo il regista abbia addensato in 104 minuti di pellicola tanti di quegli elementi invasivi che rendono il film una sorta di polpettone di generi: si parte dal film di redenzione e si arriva ad un violento action movie, senza tralasciare elementi da commedia rosa misti a tratti della commedia nera con continui rimandi allo sfondo sociale in cui la vicenda si svolge. Il risultato è un pessimo prodotto tenuto in piedi dalla recitazione degli attori che, volenti o nolenti, si ritrovano tra le mani dei personaggi senza psicologia, immobili nelle loro caratterizzazioni iniziali, incapaci di evolversi e prendere in mano le redini della storia, bloccati dal vortice gattopardiano per cui “tutto cambia affinché nulla cambi”. Se non fosse per il finale che non lascia presagire speranza, potremmo accarezzare l’idea di essere di fronte al plot di una nuova serie televisiva, un prologo che getta le basi e merita di essere sviluppato nel corso dei successivi episodi. Tutto è accennato e niente viene approfondito. Poco è rimasto del fascino del romanzo omonimo di Ken Bruen, da cui il film è tratto.
Partiamo con il considerare il titolo stesso: “London Boulevard”. La tentazione è quella di ricercare su Google Maps l’ubicazione di codesta via tra i quartieri di Londra ma si rimarrebbe delusi: è pura invenzione, non esiste, è solo un chiaro e poco rispettoso omaggio al “Sunset Boulevard” di Billy Wilder, con cui il regista vorrebbe condividere tematiche e personaggi. Il mondo del cinema, in una sorta di discorso metacinematografico, è tirato in ballo sin dalla protagonista femminile, Keira Knightley, nel ruolo dell’attrice Charlotte, una moderna evoluzione di Norma Desmond, ritirata nella sua abitazione e incapace di rimettere piede sul set. Addirittura il paragone diviene più ardito nel momento in cui Charlotte, innamoratasi di Mitchell, decide di accettare un nuovo ruolo grazie alla forza di volontà che l’amore ha risvegliato in lei. Niente di stucchevole se non fosse per il vuoto che circonda tale decisione: bastano tre dialoghi, di cui due insensati giocati su domande tese a mettere in risalto il possibile cambiamento di Mitchell e la sua “bontà” in base a logiche lombrosiane, per far scoccare la scintilla e farla annegare in una sola notte di passione. Un po’ poco per un cambiamento e una spiegazione credibile.
E non è tutto. Si deve a Charlotte una delle affermazioni più irreverenti mai sentite sul ruolo delle attrici all’interno di una pellicola: «Una donna all’interno di un film è funzionale solo per mettere in luce l’eroe maschile […]; un’attrice è costretta o a fingere di praticare sesso orale in ginocchio al suo uomo o a recitare in un film senza audio girato a Genova con un vecchio pervertito». Mentre spetta a Jordan (che mette ben evidenza gli effetti dell’essere stato un bambino sfruttato dallo star system) una delle più caustiche battute mai sentite: «Se non fosse per Monica Bellucci, Charlotte sarebbe l’attrice più violentata della cinematografia europea». Volendo sorvolare sull’aspetto quasi comico delle due affermazioni, mi chiedo ad esempio perché tanta avversione per l’Italia e il Made in Italy, avversione confermata anche dalla scelta di raccontare lo stupro di cui è stata vittima Charlotte stessa, avvenuto in Italia in seguito a della droga in un bicchiere di Chianti.
Nel tentativo poi di emulare un film mediocre come “Guardia del corpo” o una commedia sentimentale ironica come “Notting Hill”, si pone l’accento anche sulla star ossessionata dai paparazzi e dalla fama stessa. Mitchell dovrebbe proteggere Charlotte da energumeni armati di macchina fotografica e telecamera, appostati davanti ai cancelli dell’abitazione o sui tetti dei palazzi dirimpettai. Volendo pur credere a tale accanimento, non si può invece sorvolare sulle richieste dei paparazzi stessi (molto diretti, a loro sembra interessare solo «con chi sta scopando quella puttana di Charlotte») e sull’uso che la stessa Charlotte fa dei media nel finale del film in cui da Los Angeles usa i telegiornali mondiali per far dichiarare che lei è estranea ai fatti che sono accaduti a Londra. Quindi, nell’arco di pochissimi minuti Charlotte passa da un atteggiamento di avversione ad uno di complicità senza che mai la scena mostri il suo percorso interiore, i suoi ragionamenti. Alla fine, pur essendone la protagonista femminile principale, Charlotte finisce con l’essere solo un cameo all’interno della storia, un personaggio ininfluente per la deriva presa dalla trama principale. Anche se non esistesse la love story accennata e banalizzata, il film non perderebbe nulla del suo sviluppo. Ed è incredibile come la Knightley finisca vittima del ragionamento che la sua Charlotte fa della presenza femminile in una pellicola.
Colin Farrell (e il personaggio di Mitchell) è ancora una volta un grosso punto interrogativo. La perplessità è dovuta più che altro alla facilità con cui porta la sua recitazione ad un livello già visto e rivisto in altri suoi film. Mitchell non è lontano né dal Terry di “Sogni e delitti”, con cui condivide persino l’accento, né dal Ray di “In Bruges”, con cui condivide gesti e movimenti. Una recitazione stantia che non riserva guizzi e lampi di genio per un personaggio che perde complessità dopo i primi venti minuti, incapace di abbandonare la sua vita precedente e alimentato dalla sete di vendetta, valore non certo positivo per la carica semantica che comporta. Il tema del riscatto va a farsi benedire e nessun elemento gioca a questa ennesima conversione in negativo del personaggio, non bastano le metafore e le similitudini altisonanti, non bastano i discorsi da bignamino marinaro per rendere comprensibile tale perdita di volontà e tale resa alle circostanze e agli eventi. Del romanzo originale, mancano varie connotazioni del personaggio di Mitchell, come ad esempio la sua passione per i libri gialli e i noir, la sua determinazione e la sua triste violenza. Nel film si percepisce l’idea che Mitchell sia il classico uomo d’istinto, senza razionalità, tutto pugni e pistola. Se il ruolo del protagonista richiama al contempo l’eroe e l’antieroe, si rischia di causare nello spettatore una perdita di affezione se non si ricorre ad elementi empatici. Abbiamo visto spesso killer divenire protagonisti amati, si pensi ad esempio ai due recenti titoli di Cronenberg (“A History of Violence” e “La promessa dell’assassino”) in cui l’elemento psicologico portava a parteggiare proprio per l’eroe protagonista negativo, se ne comprendevano le ragioni di azione e si giustificavano. Anche in questo caso, invece, “London Boulevard” accenna ma non approfondisce: fa accompagnare Mitchell dall’amico Billy, dal barbone Joe e dalla sorella Briony senza mai far capire il grado del legame che intercorre tra loro e il protagonista e senza dare risposte a domande che si rincorrono durante il film (ad esempio, che ruolo ha avuto Billy durante l’aggressione di cui fu accusato Mitchell anni prima? Chi è realmente Joe e cosa ha condiviso con Mitchell? Perché Mitchell sorvola sui comportamenti malsani della sorella, novella Amy Winehouse, in preda all’alcol e ai disturbi alimentari? Su che presupposti si basa la tresca amorosa con Charlotte?).
Anche i personaggi secondari non sono da meno in superficialità e deja vu cinematografici. Ad esempio, stupisce come si bruci la presenza magistrale di Ray Winstone per il ruolo del boss Gant, a metà strada tra il padrino di Marlon Brando e il Frank Costello di Jack Nicholson in “The Departed”. E a nulla serve provare a spiegare la sua efferatezza facendo ricorso agli espedienti narrativi degli abusi sessuali subiti durante l’infanzia o accennando la sua velata omosessualità. Ci sono troppi stereotipi che si ripetono (il boss con la passione delle auto, sovrappeso, in giro con due uomini a proteggerlo, sposato con una giovane donna), così come ce ne sono troppi nel personaggio del poliziotto Bailey, interpretato da Eddie Marsan, caricatura del poliziotto degli Anni Settanta sia nel fisico sia nel modo di agire: sarebbe bastata un po’ di ironia alla Tarantino per rivoluzionare il già visto.
Spunti interessanti sono legati invece ad altri personaggi e ciò causa maggiore rammarico per come siano solo abbozzati. È il caso di Billy, uno straordinario Ben Chaplin, malvivente nevrotico, avulso, anche stupido ma dal fascino irresistibile per un ruolo non certo simpatico (carnefice e vittima di se stesso, della sua sfrenata voglia di potere e di fare). E non si sottovalutino i ruoli di David Thewlis e della moglie Anna Friel, qui impegnati nei panni di Jordan e di Breony. A livello di sceneggiatura sono gli unici ad apparire interessanti nel loro essere eccessivi e sopra le righe, spezzano i toni spessi cupi del film regalando momenti di ilarità anche involontaria, alternando spesso un linguaggio ricercato ad uno volgare e pacchiano.
Unica nota di merito all’interno di tanta confusione è innegabilmente l’eccelsa fotografia, spesso esterna e notturna, di Chris Menges che mantiene viva la percezione decadentista della Londra post 11 marzo, impaurita dalla violenza dei suoi sobborghi (dove per sobborgo è da intendersi anche la riva del Tamigi o un tunnel della metropolitana), che ha preso il posto della speranza (tutto è lecito pur di garantirsi un futuro, come ben evidenzia la scena finale lasciata in mano al giovane sedicenne che ha accoltellato il barbone Joe). Del resto non ci si poteva aspettare diversamente da chi ha curato la fotografia di film come “Le tre sepolture”, “Piccoli affari sporchi”, “The Reader” o “Diario di uno scandalo”, solo per limitarsi a pochi titoli.
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