Regia di Simon Curtis vedi scheda film
“Insegnare a recitare a Marilyn Monroe è come insegnare l’urdu a un tasso!” Chissà se Sir Laurence Olivier, nel 1956, sul set de “Il principe e la ballerina” ha davvero pronunciato questa frase. A mettergliela in bocca è l’allora ventitreenne Colin Clark, figlio di un noto professore inglese di storia dell’arte, che in quel film era il terzo assistente alla regia. Col tempo sarebbe diventato un importante produttore di documentari. E tanti anni dopo, ormai alla fine della sua carriera, avrebbe raccolto le memorie di quella sua prima straordinaria esperienza nei libri The Prince, the Showgirl and Me (1996) e My Week with Marilyn (2000). Simon Curtis ne ha tratto quello che si potrebbe definire un romanzetto rosa di sontuosa fattura. Kenneth Branagh e Michelle Williams sfoggiano un’interpretazione tecnicamente ineccepibile (a volte così perfetta da risultare sorprendente), però, purtroppo, del tutto priva di carisma: di Laurence Olivier e di Marilyn Monroe riproducono fedelmente le movenze e l’espressività, ma non riescono a trasmetterne l’anima. Sono copie virtuosistiche degli originali, che spesso involontariamente sconfinano nella caricatura. Lo spirito della commedia hollywoodiana, con quei suoi cliché brillanti ma impomatati, a dire il vero, c’é proprio tutto: i personaggi sono i classici tipi buffi che strappano il sorriso prendendosi eccessivamente sul serio e, nei momenti tristi, suscitano un’infinita tenerezza. Il dramma della star infelice ed incompresa diventa lo spunto per farci innamorare, come adolescenti, di quella bellezza tanto divina nella presenza scenica quanto fragile nella vita privata. Un incanto finto e temporaneo, che ha la tenue consistenza di un’illusione. Marilyn, per il pubblico, è stata proprio questo: un’apparenza folgorante e fugace, presto affondata nell’abisso di un dramma nascosto nell’ombra. Tuttavia, in questo film, la luce dei riflettori viene sparata su quella figura anche nelle situazioni più delicate e intime: quella nuvola bionda su un corpo da favola non esce mai dal ruolo, rimanendo sempre e comunque un personaggio da sogno, romanticamente adorabile anche nel dolore. Una donna inadatta alla durezza del mondo (di cui fanno parte anche il piglio severo ed i modi bruschi di Olivier), però costruita su misura per gli individui inoffensivi e sensibili come il macilento e lentigginoso Colin, stereotipo del ragazzo di buona famiglia, cresciuto in campagna e piuttosto sprovveduto. Marilyn è, insomma, una bambola, precisamente calibrata sull’immagine pubblicitaria eternata dai poster e dai tanti famosi fotogrammi. Simon Curtis la pone al centro di una pellicola dall’estetica volutamente anacronistica, che forse intendeva essere una nostalgica ed autoironica rievocazione della dorata epoca del divismo, o forse soltanto una piccola testimonianza storica avvolta nel patinato involucro dell’agiografia popolare. In ogni caso, lo stile appare interamente proiettato verso l’adesione ad un canone estetico precostituito, a cui il regista probabilmente si sente debitore, e che lo spinge ad astenersi da ogni intervento critico. Così nasce questo indefinito tributo di devozione, impersonale e fuori dal tempo, ad una leggenda, eroica senza essere tragica, che parla innocentemente di amore, successo e solitudine: un omaggio scritto col cuore, però sapientemente modellato sulla poesia di tutti. Un mirabile impegno formale, che insegue strenuamente lo splendore ed immancabilmente lo trova: il che è troppo per dirne male, ma troppo poco per dirne bene.
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