Regia di Simon Curtis vedi scheda film
“My Week with Marilyn” dice – meglio del titolo italiano – di che cosa si parla nel film, che non è un biopic, ma il diario dei 7 giorni vissuti con Marilyn, da un giovane neolaureato di Oxford, col pallino del cinema.
In questa circostanza si era creato lo speciale rapporto di amicizia fiduciosa: lui se n'era innamorato, come tutti coloro che con la Monroe avevano lavorato
Colin Clark (Eddie Redmayne) si era trasferito dalla casa di campagna a Londra, proprio per lavorare nell’ambito cinematografico dove, grazie alla sua insistenza, era riuscito a farsi assumere dallo staff di Lawrence Olivier, come terzo aiuto regista, per il film che si stava girando: Il principe e la ballerina.
Siamo nel 1957: Marilyn Monroe allora aveva trent’anni ed era da pochi mesi la moglie del drammaturgo americano Arthur Miller.
Alle sue spalle, una vita resa spesso abietta dalla povertà, ora riscattata dal successo: alcune sue interpretazioni - le citerò alla rinfusa - dal 1950 al 1953 avevano reso celebre lei, nuovo e straordinario sex symbol, e avrebbero fatto epoca nella storia del cinema: Giungla d’asfalto (con la regia di John Huston, che sarebbe stato anche l'ultimo suo regista); Come sposare un milionario; Niagara; Gli uomini preferiscono le bionde; Quando la moglie è in vacanza…
Non aveva ancora girato il film-capolavoro A qualcuno piace caldo ma solo pochi anni la separavano da Gli spostati diretto da John Huston quasi alla vigilia della sua misteriosa morte (1962).
Secondo il racconto che Colin Clark affidò alle pagine delle sue memorie – My week with Marilyn – l’arrivo dell’attrice (Michelle Williams) era stato preceduto dai preparativi e dagli adempimenti organizzativi, burocratici e persino sindacali di tutto lo staff, impegnato a garantirle la migliore accoglienza possibile in un cottage fuori Londra, mentre, nel sonnolento mondo della campagna inglese, si diffondeva un misto di euforia e di inquietudine, soprattutto quando – col pretesto di rivedere i suoi figli – Miller era ripartito per New York, abbandonando lei nella più disperata solitudine.
Cominciavano a intravedersi le crepe di quel matrimonio che Miller – intellettuale di mezz’età in odore di comunismo, in piena guerra fredda, – aveva tenacemente voluto e nel quale anche lei aveva creduto, finché non aveva ritenuto di scorgere, in alcune pagine di lui, apprezzamenti poco lusinghieri sul proprio conto.
Si delinea nel film un ritratto, certo non originale, della donna più desiderata del mondo, combattuta fra l’istintiva gioia di vivere, che la portava a uscire dal suo rifugio per immergersi nel bellissimo paesaggio della campagna londinese in piena libertà, nella natura, e fra gli ammiratori accorsi ad adorarla (bellissima la scena degli studenti di Eton che le si fanno intorno) e la sua insicurezza profonda; il terrore di non saper recitare; il capriccioso comportamento sul set – non è mai puntuale, non ricorda le battute, cerca di rubare la scena – nonché l’oscuro desiderio di oblio e forse di morte che la portava a consumare micidiali quantità di aloolici e sonniferi, che la rendevano sempre meno presente a se stessa e sempre più infelice.
Il giovane Collin, nella settimana più critica del soggiorno inglese di Marilyn, le offre una compagnia leale e affettuosamente disinteressata, nonché qualche momento di pace, lontano da quell’angoscia che la faceva sentire inadeguata a recitare e a vivere come chiunque non sia prigioniero, come lei era diventata, di un personaggio, senza il quale, per altro, ormai non saprebbe che fare.
Il film ci racconta dunque, con ironia molto britannica, cose che si sono più volte dette e lette: non è un capolavoro e la Williams sebbene ce la metta tutta, non le rassomiglia neanche un po’. È però un’occasione per riflettere sul mito di Marilyn, la diva che ci ha lasciati in misteriose circostanze nel lontano 1962 …
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