Regia di Jörn Donner vedi scheda film
Accorto e intelligente impaginatore delle storie che racconta, Donner è qui particolarmente attento a rapportarsi con il contesto sociale svedese del periodo nei confronti del quale, oltre a portare in evidenza i problemi sempre attuali dell’emancipazione della donna, esprime anche una posizione di forte e motivata critica verso il matrimonio.
Del finlandese Jörn Donner, classe 1933 e della sua interessante produzione cinematografica (almeno agli esordi sembrava essere proprio così: un nuovo regista che era molto di più di una semplice promessa) ci restano ormai pochissime tracce. Si ricorda forse più facilmente per essere stato sposato con Harriet Andersson, e soprattutto per aver prodotto lo straordinario Fanny e Alexander di Ingmar Bergman.
In effetti, anche se poi lentamente i ricordi si sono appannati e il suo nome è caduto nel dimenticatoio, nel decennio dei ’60 (era considerato in quegli anni il più dinamico e dissacrante esponente della più giovane e rinnovata cinematografia scandinava), le sue opere furono oggetto di particolari attenzioni anche da parte della nostra critica: sia il titolo del suo esordio nel lungometraggio a soggetto, Una domenica di settembre (per il quale si parlò di collegamenti diretti con la corrente della Nouvelle Vague e con il cinema del primo Antonioni) che il successivo, Amare (Att Alska), furono selezionati e passarono con successo dalla Mostra del cinema di Venezia (per Amare la sua protagonista, Harriet Andersson, si aggiudicò anche una meritatissima Coppa Volpi quale migliore interprete femminile) e poi regolarmente distribuiti in sala.
Amare in particolare, sua opera seconda, che confermava in pieno il talento un po’ acerbo, ma già prepotentemente personale del suo debutto, ebbe anche una discreta accoglienza da parte del pubblico (forse per le tematiche un po’ “pruriginose”, che anticipavano molte delle problematiche conflittuali che sarebbero poi esplose quattro anni dopo con i movimenti sessantottini: pur se raccontato con il gusto dissacratorio della commedia e il passo lieve della “boutade”, il suo allegro erotismo, non fu sufficiente a salvarlo dagli “strali” degli scandalizzati benpensanti dell’epoca, ma gli assicurò una visibilità certamente superiore alla media dei titoli importati dal nord Europa, Bergman escluso).
E’ in ogni caso una pellicola che anche alla distanza, conferma le oggettive qualità di Donner e definisce perfettamente il suo caratteristico stile nella rappresentazione di una sessualità franca e felice, esente da qualsiasi tratto di morbosità. Ovviamente però il suo cinema non è solo “commedia”: autobiografismo, approccio sociologico, ruolo dell’artista, sono infatti le connotazioni tematiche che ricorrono più frequentemente nelle sue opere (troppo poco viste da noi) totalmente esenti da compiacimenti pretenziosi, e sorrette invece da una insolita “franchezza” di immediata presa e dove anche le provocatorie scelte del racconto (il film si svolge quasi tutto in camera da letto, e agli amori consumati nella stanza, assistono cordiali e benevoli sia la madre che il figlioletto della protagonista) sono semmai utilizzate per tentare di scuotere il pubblico da una troppo placida condiscendenza nei confronti della realtà e dello spettacolo cinematografico.
Accorto e “intelligente” impaginatore delle storie, anche in Amare Donner non mette in campo solo la tematica erotica (è semmai l’elemento che più salta agli occhi a una prima visione), perché il film, sottile ed elegante come pochi altri dell’epoca, è particolarmente attento a rapportarsi con il contesto sociale svedese del periodo, nei confronti del quale, argutamente, oltre a portare in evidenza i problemi sempre attuali dell’emancipazione della donna (l’allusione alla presa di coscienza femminile con la rivendicazione consapevole del diritto alla propria libertà sessuale) e dell’educazione sessuale nelle scuole (Jacob, il bambino di Luisa, sa tutto sul sesso e non si stupisce delle “performance” amorose della madre con Fredrik, il suo amante), esprime anche una evidente posizione di forte e motivata critica per esempio verso la troppo paludata istituzione del matrimonio e non risparmia graffianti zampate satiriche sullo stato assistenziale. E’ bravissimo insomma nell’utilizzare il linguaggio cinematografico del periodo, per tentare di esprimere con spiccata personalità, “qualcosa di nuovo”. Il suo è un lavoro che si muove dunque in direzione di una progressiva evoluzione verso un modo di raccontare più moderno e problematico privo di “formalismi”, pesanti simbologie o artifici, e che – quasi in controtendenza col cosiddetto “bergmanismo” di maniera ormai imperante verso il quale si era già espresso negativamente con la sua precedente attività di critico - privilegia invece la limpidezza dello sguardo e la volontaria “chiarezza” della forma, indifferente verso chi le considerava scelte un po’ troppo sofisticate e soprattutto “indisponibile” a cercare scorciatoie “accattivanti” per arrivare al consenso generalizzato di più vaste platee.
Film di interni e di psicologie chiaramente influenzato (anche indirettamente) dalla lezione Godardiana (singolari le analogie sulla condizione della donna con Une femme mariée , entrambi del 1964 e passati da Venezia praticamente “in simultanea”) e con qualche debito “dichiarato” verso Stiller, il padre della commedia svedese che nel 1920 dette scandalo con Erotikon (Verso la felicità) al quale sembra davvero rifarsi Donner con spirito e stile più moderni, riproponendo però lo stesso clima allegro e stravagante, naturalmente aggiornato ai tempi, è un’opera singolarissima che, come ci ricorda il Mereghetti, porta in primo piano con ampia e bella ricchezza di particolari, la storia di una doppia diversità, di sesso e di nazionalità.
Il tono è quello deluso (e anche un po’ allusivo) degli anni Sessanta, dove la “superiorità” della donna sull’uomo che già si delinea sull’onda dell’emancipazione femminista si trasforma in un pessimismo esistenziale che induce la protagonista a considerare il matrimonio nient’altro che una lezione di rassegnazione e l’amore qualcosa che esiste solo finchè dura l’attrazione fra i corpi. Il dialogo, spesso intelligente per le sue allusioni sui costumi, è in questo senso spesso determinante per disegnare il clima giusto e fare la differenza (non a caso la sceneggiatura è dello stesso Donner).
L’argomento di Amare, si potrebbe dire dunque che è di quelli che sembrano in partenza un po’ scontati (o peggio ancora, fritti e rifritti, visto che poi alla fine si parla sempre di “matrimonio” ed di “amore”). Eppure il film si fa particolarmente apprezzare proprio per il modo “disincantato” con cui si confronta con tali tematiche e per come tiene alto e controllato tutto il percorso evolutivo della storia, anche nei momenti in cui sarebbe stato facilissimo cadere nel banale e nel trito, questo grazie a una ironia di fondo che rende molto ben condita e sapida la pietanza, così da risultare “gradita” e sorprendente anche per i palati più esigenti.
La protagonista è una vedova, non proprio giovanissima ma ancora ben più che “piacente”. Scomparso il marito, la donna che non ama piangersi sterilmente addosso, anziché mettersi in gramaglie per interpretare il ruolo di vedova sconsolata che gli verrebbe assegnato dal perbenismo borghese, si da infatti da fare addirittura con il primo che dimostra interesse per la sua persona. Diventa così l’amante di un funzionario polacco di una agenzia di viaggi, che è una specie di dongiovanni locale, sempre molto attento e sensibile al fascino delle belle donne.
Il legame funziona più del previsto, anche di fronte agli occhi del bambino che la donna aveva avuto dal defunto consorte…. E qui subentra l’ironia sagace della “boutade” - visto che a questo punto ci sarebbe da prendere una decisione per ufficializzare un rapporto che sembrerebbe ormai essere ben consolidato - con il riottoso amante allergico ad ogni legame definitivo, che chiederà di sposare la donna, tanto è preso di lei da non poterne fare a meno. Perché davvero, il dongiovanni ha trovato questa volta pane per i suoi denti… solo che è lei a non accettare la proposta : con la morte del marito (lascia intendere chiaramente) ha appena incominciato a godere i frutti della vita e della libertà. Si è finalmente spogliata da ogni complesso di borghesoccia morigerata ed è quindi intenzionata a non volere alcun nuovo legame (magari se ne potrà riparlare in seguito, suggerisce con maliziosa impertinenza, ma solo quando il numero complessivo dei suoi nuovi amanti, pareggerà il conto con quelli dell’immenso carnet del “rubacuori” convertito).
Come si può ben intuire, Amare è un film che si muove con spregiudicata libertà (almeno per la nostra morale dell’epoca), senza puntare però sull’erotismo fine a se stesso, per fare invece un discorso più ampio (anche critico) e permetterci così di acquisire “nuove” modalità e conoscenze anche sulle tematiche “scabrose” del sesso (in questo si inserisce perfettamente senza sfigurare nella tradizione del buon cinema svedese del periodo, che aveva fatto proprio dell’erotismo una materia degna di essere portata in primo piano e di essere trattata senza infingardaggini col linguaggio diretto della verità sia pure riscattando liricamente il tutto con la forma e lo stile). La sorpresa sta semmai nel fatto che il regista lo fa questa volta seguendo un percorso totalmente autonomo, rifiutando il linguaggio risaputo e ormai un po’ logorato, del vecchio cinema scandinavo (a titolo di esempio potrei citare al riguardo il divertito coinvolgimento di quelle situazioni in cui la protagonista è alle prese con la definizione della sua nuova condizione sentimentale e personale).
L’appropriata interprete del ruolo principale, come ho già detto, è Harriet Andersson, brava e seducente come non mai: adattissima a questa parte poco paludata, che non richiedeva una semplice “fascinazione” di maniera, ma pretendeva la presenza di una “vera” donna con le sue molte virtù, ma anche con i suoi difetti.
Efficace e convincente anche l’attore Zbigniew Cybulski nel ruolo dell’amante, un polacco che può davvero incantare una svedese molto di più di un latino: spaesato quando è necessario, ma meravigliosamente ironico (e autoironico) quando la parte lo richiede.
Sontuosa come sempre, la fotografia di Sven Nykvist.
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