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Habemus Papam

Regia di Nanni Moretti vedi scheda film

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La recensione su Habemus Papam

di (spopola) 1726792
8 stelle

Moretti fa convivere la leggerezza della commedia con la profondità dell’assunto con un’esuberanza un pò liberatoria che ha il merito di trasformare il surreale in pura poesia. Ci regala così un’opera di intelligente divertimento che tiene in un equilibrio pressoché perfetto, due storie: una estroversa e giocosa; l’altra più intima e dolente.

Nina: “E’ difficile recitare nella nostra commedia. Non ci sono personaggi vivi”.

Treplëv: “Personaggi vivi! La vita va raffigurata non così com’è, e non come dovrebbe essere, ma così com’è rappresentata nei sogni”. (Anton Cechov, Il Gabbiano)

 

Sono  molti i punti di vista da cui si può partire per analizzare e parlare di questa ultima straordinaria opera di Moretti.

Perché non cominciare a farlo allora avallando per un momento l’ipotesi avanzata da Mauro Gervasini che indica una insolita chiave di lettura tutt’altro che campata in aria,  e cioè che dall’arrivo del professor Nanni Moretti in Vaticano alla sequenza finale, sia tutto un sogno del pontefice? Legittima e non univoca interpretazione la sua, giustificata  per altro da motivi cinematografici e di montaggio (come precisa ancora il recensore) oltre che dal differente tono imposto alle due storie parallele. Questo chiarirebbe alcuni dubbi e altrettanti “rompicapo” espressi su Duellanti da un Alberto Pezzotta non completamente soddisfatto del risultato, e che si pone “qualche problema di articolazione narrativa” che imputa in parte a una sceneggiatura  che “esibisce troppe incertezze di scrittura” e a suo dire, sollecita molti interrogativi dovuti a una mancanza di chiarezza abbastanza inusuale nel cinema di Moretti (perché – si domanda per esempio – il Papa viene portato di punto in bianco dalla seconda psicoanalista? E come mai il portavoce del Vaticano dopo aver ritrovato al Foro di Augusto il neo-eletto poi lo riperde di nuovo senza una ragione esplicita, e per “riacchiapparlo” aspetta che vada in teatro a vedere la rappresentazione de “Il gabbiano” , dove Melville  sta seduto in perfetta solitudine a osservare la scena dentro uno dei tanti palchi della sala?). Tali quesiti  non avrebbero più ragione di essere avanzati infatti, e cadrebbe di conseguenza ogni riserva di “ipotetica incoerenza” poiché ben sappiamo cosa succede in quella dimensione un po’ alterata delle percezioni che appartiene al “sogno”. Il suggerimento (di ripensarci un poco) è per Pezzotta ovviamente, poiché io non ho riscontrato al riguardo analoghe incongruenze, o anche se ci sono e non lo metto in dubbio, non ci ho fatto caso o non mi hanno disturbato, perché a mio avviso il suo procedere a zig-zag, quel suo essere volutamente altalenante fra i due diversi piani del racconto, contribuisce a non “logicizzare” tutto ciò che viene messo in scena e a rendere così più “aperta”  e multiforme non solo la scrittura, ma  anche l’interpretazione. La vita va raffigurata non così com’è, e non come dovrebbe essere, ma così com’è rappresentata nei sogni, appunto.

Andando comunque ancora avanti nell’analisi del film, ci si potrebbe persino azzardare a dire  (e sarebbe un altro tema prettamente morettiano) che è tutto un “gioco” e una similitudine per arrivare a parlare di una “regressione” assunta  come simbolo – ma anche sintomo - di una altrettanto evidente inadeguatezza, un’inadeguatezza tutta umana per l’appunto, che Giorgio Cremonini  trova perfettamente evidenziata nella doppia gag (anch’esse in perfetto stile morettiano),  degli elettori che sussurrano in coro “Non io, non io”, anche se non è chiaro fino a che punto siano sinceri (dopotutto potrebbe essere solo una forma di civetteria, non necessariamente di malafede), e delle urla di terrore che per un attimo sovrastano l’annuncio “Habemus Papam” davanti a una folla che da festante si fa allibita.

Potremmo anche però molto più semplicemente concludere che il film racchiude in sé (e fa convivere) la leggerezza della commedia e la profondità del pensiero (cosa non sempre molto facile da attuare) e lo fa con un’esuberanza volutamente insistita e un pò liberatoria che ha la rarissima capacita, ma anche il merito, di trasformare il surreale in pura poesia. E se di semplice  “gioco” si  dovesse in fondo poi trattare, indubbiamente è un  “gioco” sottile e malizioso, quasi da  prestigiatore, quello che l’”illusionista” Moretti mette in campo con un’opera di grande e intelligente divertimento come questa che riesce a coniugare in un equilibrio pressoché perfetto, due storie e un doppio spirito, uno estroverso e giocoso per l’appunto;  l’altro più  intimo, smarrito e pieno di lacerate spaccature.

 

Certo che un nodo centrale c’è sempre, ed è fondamentale (magari anche più d’uno, come la dimensione teatrale e quella dell’attore che vedremo in seguito).Riguarda in prima istanza la consapevole ritrosia dell’eletto  “suo malgrado”, ad assumere davvero la funzione che gli è stata conferita, e soprattutto ad agire  in conseguenza, a caricarsi delle responsabilità che ne derivano e che la “mansione” impone, che si risolve, alla fine di un percorso interiore particolarmente travagliato, in una  sofferta (e credo meditata) rinuncia malinconicamente evidenziata dalla splendida chiusura  repentina ed efficace, con  l’immagine potente di quel balcone vuoto che rimane impressa nella memoria, e che potrebbe far scivolare il pensiero verso la dimensione un po’ astratta e utopica di una bella ed edificante  favola, quella del potente di turno che abdica “rigettando” il privilegio che gli è stato assegnato, dichiarandosi in qualche modo “incompetente” al ruolo (affascinante soluzione della quale forse se ne avvertirebbe un prepotente  bisogno pure nella realtà, in questi tempi bui oppressi dalla volgarità prevaricante del potere e di chi si arroga il diritto di esercitarlo). Un finale a suo modo rivoluzionario proprio perchè riflette sul potere come peso, parla del senso di responsabilità, di coscienza e modestia, della necessità insomma di trovare una risposta nuova (ed una nuova anima) alla complessità di un “oggi” sempre più controverso e privo di valori.

Perché alla fine il film è abbastanza circoscritto al tema ed ha un soggetto molto striminzito e semplice (alla Marco Ferreri – scrive ancora Pezzotta – uno di quei soggetti che potrebbero stare su un foglietto e che nessun regista men che geniale oserebbe prendere in considerazione) ma sono poi le divagazioni, le intersezioni, a fare la differenza, quel suo costante procedere più tortuoso che rettilineo (presente nella trama e nel pensiero espresso) che il montaggio un po’ “a singhiozzo” di alcune parti fortemente frammentate, amplifica (come il primo colloquio fra la psicologa Buy e il neo-eletto Pontefice dubbioso e un po’ recalcitrante Piccoli), e a far considerare alla fine, che è una “semplicità” difficile da raccontare (e riassumere) in poche righe quella di Habemus Papam  proprio per la densità dei contenuti e delle implicazioni che racchiude.

 

Un Papa che non vorrebbe essere Papa dunque, che si ricorda all’improvviso che da giovane aveva invece la vocazione dell’attore (ed ecco allora tutte le scene un po’ surreali del Gabbiano di Cechov recitate da chi attore lo è  sul serio, nella finzione come nella vita – davvero strepitosa la performance “fuori di testa” di Dario Cantarelli - che insieme alle battute del testo declama senza soluzione di continuità, anche le indicazioni e le note di regia, e che con altrettanta disinvoltura, passa dai corridoi dell’albergo alla clinica psichiatrica, e da questa al palcoscenico, una metafora straordinaria di un’altra rappresentazione intensamente attesa fuori, nella piazza gremita di San Pietro, dove un folla imponete “orfana” del suo “santificabile” pastore d’anime ormai defunto, aspetta con impazienza insieme alla stampa e alle televisioni un’altra  “recita”, e di ben differente “rilevanza”, quella che dovrà fornire il nuovo  “attore”  che è stato scelto per “impersonare”  e rendere “credibile” con la sua interpretazione, un ruolo fondamentale e “indispensabile”, reso vacante dalla morte del suo predecessore).

Perché davvero Habemus Papam, anche se comincia proprio col mostrarci le immagini reali  (quelle di repertorio) dei funerali solenni di Papa Wojtyla e mette comunque in scena le umane debolezze e  lo spirito competitivo dei prelati (ce li mostra indirettamente attraverso la descrizione della tormentata notte in Vaticano e nel sottolineare  a più riprese, spesso con al leggerezza della boutade, la loro sconfinata voglia di vincere sia attraverso le scommesse dei bookmaker inglesi, che quando giocano a scopone, o disputano le partite di pallavolo a squadre), non è un film sul Papa e sulla Chiesa, potere temporale incluso, ma un’opera potente che parla di tutti noi, o almeno di chi, arrivato a un certo punto della vita, è stato costretto dalle circostanze o da qualche inaspettato avvenimento esterno, a fare i conti con se stesso, e a guardarsi indietro per chiedersi “chi era” e cos’è diventato, e soprattutto cos’era invece che avrebbe voluto essere e cosa  può ancora fare - a cosa deve avere il coraggio di rinunciare - per  ritornare quello che era una volta almeno nel pensiero  e non rimanere così  definitivamente schiavo delle convenzioni (e guarda caso, qui c’è proprio una nuova elezione al seggio Pontificio, che fa improvvisamente rimpiangere all’uomo inaspettatamente designato, di non aver fatto l’attore, facendo così riemergere dall’inconscio una evidente e più genuina “vocazione” interiore di quella legata alla fede ed al potere).

Che ricchezza di temi allora c’è dentro a questa storia! quanti significati profondi ci si nascondono dietro, visto che indubbiamente è anche una seria e ragionata riflessione sul potere come si è gia detto  (ma si potrebbe dire ancora meglio, sulla “messa in scena” del potere) oltre che sulla lontananza del potere dalla realtà e sui suoi spietati (e un po’ perversi) meccanismi di autoconservazione  che non contemplano (né sopportano e accettano) critiche o autocritiche, e men che meno “defezioni”. E  tutte queste tematiche, spunto e oggetto concreto di riflessione, Moretti ce le “spiattella” in faccia brutalmente anche se con sottigliezze  persino un po’ stralunate che le rendono meno indigeste e uno “speciale” approccio immediatamente riconoscibile, che forza sino al paradosso l’ironia di molte situazioni in alcune memorabili sequenze (il Papa che dalla psicanalista “inventa” improvvisamente di essere un attore: bugia precipitosa per “negare” il suo effettivo ruolo, ma anche lapsus rivelatore di un bisogno, di una “tentazione” e di una “costrizione”; la guardia svizzera incaricata di simulare la presenza del Pontefice durante la sua “fuga” che staziona nei suoi appartamenti per far credere che qualcuno c’è davvero là dentro a riflettere e pregare;  il Papa che si rifugia in incognito  fra la folla, si mescola alla gente comune della strada per conoscerne e condividere desideri e aspirazioni; il dubbioso portavoce del Papa che impara l’umiltà ascoltando il sermone “recitato” da un prete di ben più fresca nomina).

E c’è da meditare anche sul fatto che forse Moretti intende in fondo parlare soprattutto di se stesso persino in questo caso, e che  l’impostazione del discorso fatta sugli ottantacinque anni di Papa Melville non è in fondo molto diversa da quella che potrebbe riguardare gli ormai quasi sessanta  raggiunti dal regista, tanto che le due circostanze sembrano veramente camminare di pari passo e fanno davvero poca differenza: sono per entrambi momenti “cruciali” in cui il bilancio, il “rendiconto”, è d’uopo, necessario e inderogabile.

La maturità a qualcosa serve, anche ad ammettere con noi stessi che no, non diventeremo mai attori teatrali, o ballerini, o campioni di pallavolo (o qualunque altra cosa alla quale aspiravamo) che abbiamo sbagliato vita – o perso l’occasione - come appunto in una commedia di Cechov, che avremmo voluto vivere in città e invece stiamo in campagna, e portiamo addosso, sempre vestiti di nero, il lutto della nostra vita (Emanuela Martini) ma l’importante alla fine è prenderne coscienza e diventarne consapevoli agendo in conseguenza.

Habemus Papam  allora è un altro di quei titoli  della nostra cinematografia che riflettono sulla Storia e sul presente di noi italiani (sono stati numerosi gli esempi importanti in queste ultime stagioni), ed è forse proprio  per questo, zeppo di punti interrogativi, pone molti quesiti  ai quali è persino difficile dare delle risposte concrete se non vogliamo fare della demagogia un po’ spicciola (cosa che Moretti si guarda  bene pesino da “sfiorare” alla lontana) e in  tale prospettiva può assumere quasi il senso di una provocazione fatta per indurre ciascun spettatore a trarre dalla visione la propria personale e autonoma  “lezione”.

 

Dopo anni di perlustrazione nel sociale spesi a parlare soprattutto di politica e cultura, Moretti ha rivolto questa volta  il suo sguardo verso un territorio molto più sfumato, prendendo a pretesto la liturgia dell’investitura, dove però è il rito (farsi vedere al mondo) che si ribalta in recita (far vedere qualcosa al mondo) [Carlo Chatrian] .

Anche con quest’opera comunque  il regista rifiuta ogni costrizione anche dogmatica,  per fare un cinema creativamente libero e pieno di inventiva, tanto che è persino difficile catalogarlo in un genere preciso, con il quale cerca di fare coesistere ambizioni ed intenzioni, obblighi e aspirazioni personali, vita reale e finzione teatrale, e dove se si osserva bene, è proprio la figura dell’attore quella su cui la  pellicola gira introno e si avvita: attore (mancato) è il Papa, sostituito appunto da una controfigura (la guardia svizzera che muove tende e fa il gioco delle tre carte dietro alle finestre con il suo apparire e sparire); attore a suo modo è anche lo psicoanalista “più bravo del mondo” di Moretti, che usa la sua piccola tragedia familiare – la separazione – per vincere una mano nel gioco delle carte;  attore per “necessità” oggettiva è persino il portavoce vaticano che per nascondere una imbarazzante verità, impone la recita di una “finzione” ben più rassicurante. E poi ci sono anche i  “commedianti veri”, quelli della compagnia teatrale con il suo protagonista impazzito per davvero, a rendere più suggestiva la visione.

“Vesto di nero perché sono in lutto per la mia vita” (Cechov, Il gabbiano) ed è così, attraverso battute come questa, che il teatro irrompe nella realtà, la “illumina” ci si mescola, ne diventa mediazione e metafora.

Nonostante l’inadeguatezza che riguarda sia le esigenze dell’arte che le necessità imposte dal potere, resta quindi chiaramente espressa, l’impossibilità di scindersi dal ruolo se non si effettua una rinuncia formale davanti alla piazza  con conseguente uscita dalla scena pubblica (Melville che cammina fra la gente nuovamente libero dopo aver deposto “l’uniforme”), e non c’è niente di più cechoviano di quest’uomo incatenato nella ristrettezza del personaggio, desideroso di cambiare se stesso e le cose, ma che resterebbe ineluttabilmente fermo e incapace di farlo per davvero se non trovasse la volontà e la forza di osservarsi  e di vedersi per quello che effettivamente è, buttando alle ortiche etichette, funzioni ed obblighi, perché il Papa di Piccoli che ha una sorella che si chiama Arkadina che sa a memoria tutte le battute del Gabbiano non soffre di una crisi di fede, ma di umanità.

 

La straordinaria sequenza a teatro dunque non soltanto spiega la scena  oniricamente astratta dell’hotel che la precede, ma chiarisce definitivamente le intenzioni reali di un film che intende proprio eliminare lo scarto fra la realtà e la sua rappresentazione (i rimandi a Cechov, ma anche all’Otello di Shakespeare nell’interpretazione “epocale” di Vittorio Gassman e Salvo Randone  che  di sera in sera si scambiavano la parte, ne sono una evidente esplicitazione).

Il percorso si inerpica così su un pendio irto e scosceso, assumendo forme più impegnative e perturbanti , dove un “vuoto” simbolico, quello istituzionale, sembra progressivamente trasformarsi in “sofferenza esistenziale”: Melville ormai totalmente svuotato dentro, è diventato infatti vittima e preda di una depressione che affonda le proprie radici nell’infanzia lontana (e in quel deficit di accudimento spesso citato), della quale forse aveva peso persino la “memoria”.

Assieme al Papa però, anche la sacralità di ciò che la religione rappresenta  sembra che si sia celata agli sguardi degli astanti: ancora sconosciuta per i fedeli, la figura del nuovo Pontefice diventa irraggiungibile per gli stessi prelati ai  quali, come si è visto, per molti giorni è stata data l’illusione della sua presenza lasciandoli a spiare di soppiatto “semplicemente” un’ombra che transita veloce, fantasma inafferrabile che scuote tendaggi e consuma i pasti perché ciò che scrutano estatici i cardinali non è più Melville, che li ha abbandonati da tre giorni (una Resurrezione alla rovescia?) ma il vuoto che si fa - oltre che concreto - anche fisico e che diventa il nulla più pesante e definitivo, la vuotezza del senso dell’esistere che è approdo ultimo della prospettiva darwinista. Il Papa semplicemente non c’è, e nel frattempo  loro rimangono in attesa, prigionieri in un limbo, confinati in uno spazio vuoto e condannati a un’inazione che colmano con le loro piccole preoccupazioni quotidiane e gli innocenti svaghi. (Marco Toscano)

La logica che muove quello smarrimento è dunque molto più di un  semplice “Domine, non sum dignus” perché non è rivolta alla divinità, ma bensì agli uomini (o per meglio dire a se stesso) . Non è quindi in gioco una inadeguatezza personale, invano perlustrata dagli psicoanalisti di turno con formule che non possono certo far ritrovare il mondo, ma la discrasia che separa l’uomo e il potere da questo mondo (l’impossibilità etica del sistema dunque, per la quale è più difficile trovare una soluzione).

La scena può cambiare comunque se si vuole, anzi DEVE cambiare, perché “tutto cambia” in qualche modo, ci rassicura con la sua modulazione calda e appassionata  Mercedes Sosa[1]: Cambia lo superficial / Cambia también lo profundo / Cambia el modo de pensar / Cambia todo en esto mundo. E ancora una volta, quando quella voce si alza dalle stanze della residenza del Pontefice, è come se una folata più libera e pura, una leggerissima brezza rigeneratrice, si diffondesse sopra la città intera, fra i personaggi “imprigionati” in Vaticano e i passanti per la strada in mezzo ai quali cammina in incognito un ritrovato Melville già interiormente in parte “ritrovato” (o riconciliato con se stesso): la coscienza ci rende a volte vili, non c’è dubbio alcuno, ma è anche verità e libertà, ed è questo che è importante.

 

La presenza carismatica di Michel Piccoli è  fondamentale “dentro al film” (Nanni Moretti ha dichiarato nelle interviste rilasciate,  di aver sempre pensato a lui per il ruolo di Melville, fin dalla prima gestazione) e l’attore, “insuperabile e potente” come e ancor più del solito,  ha risposto magnificamente all’appello,  fornendo una interpretazione eccezionale davvero memorabile e soprattutto assolutamente “indissociabile” dal personaggio che è stato chiamato  a interpretare sullo schermo e dalla sua psicologia, vitalizzato da una “infinita” gamma di sfumature e stati d’animo che contribuiscono a farne una figura angosciata  spesso perplessa e quasi spaesata, piena di dubbi e di lacerazioni. Gli fanno da eccellente corollario un Nanni Moretti funzionale, sornione e meno istrionico e prevaricante del solito, nel ruolo dello psicoanalista che sarà anche il  più bravo del mondo, ma che si dimostra a sua volta pieno di  private e personali “ossessioni” , la sempre puntale  Margherita Buy e un parterre infinto di bravissimi caratteristi: come Jerzy Stuhr (il portavoce della Santa Sede), Renato Scarpa (il Cardinale  Gregori), Franco Graziosi (il Cardinale Bollati), Camillo Milli (il Cardinale Pescardona), Roberto Nobile (il Cardinale Cevasco ), Ulrich Von Dobschütz (il cardinale Brummer) , Gianluca Gobbi (la guardia svizzera) , i bambini Camilla Ridolfi e Leonardo Della Bianca, Mario Santarella, Tony Laudadio, Enrico Ianiello, Cecilia Dazzi, Lucia Mascino, Massimo Verdastro e Maurizio Mannoni nel ruolo di se stesso.

Menzione speciale per “i componenti della compagnia teatrale” (gli attori e il direttore): Teco Celio, Manuela Mandracchia, Rossana Mortara, Roberto De Francesco, Chiara Causa e soprattutto il già citato Dario Cantarelli (l’attore che recita Il gabbiano nell’hotel).

[1] Mercede Sosa,  “La Negra”, grande cantante argentina scomparsa nel 2009 , che ha raccontato al mondo “el Sur” e i suoi drammi parlando di libertà d’amore e di lotta.

 

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