Regia di Giuseppe Papasso vedi scheda film
In bilico tra ricordo personale e nostalgia del tempo che fu, l’opera prima del regista Giuseppe Papasso avrebbe meritato sorte migliore delle 30 copie distribuite in sala. Cimentarsi con il ricordo del cinema e con il dualismo sogno/realtà non è sempre facile e spesso l’esordiente cineasta cade nell’errore di prendere a modello di riferimento i cliché della fiction televisiva che impone limiti sull’approfondimento psicologico dei personaggi, ben interpretati da una schiera di tre bambini e attori professionisti relegati a piccoli ma appassionanti ruoli.
Le citazioni e i ricordi provenienti da altre pellicole non mancano, dai “Quattrocento colpi” di Truffaut al “Nuovo cinema Paradiso” di Tornatore ma quello che rende il regista è un sentito omaggio alla possibilità di realizzazione di un sogno, al di là dei contrasti con la realtà e con le fedi politiche, con le possibilità economiche di una famiglia in bilico tra l’utopia di un padre fedele al suo credo comunista e di una madre ancorata ai valori terreni.
È la storia del piccolo Salvatore e di come il suo amore per il cinema gli sia costato una punizione, forse troppo alta, per essere stato l’unico ad avvicinarsi alla «rivoluzione», al tentativo di cambiare un paesino della Basilicata del 1964 abitato da gente con mentalità «reazionaria e arretrata».
La vicenda si apre con il giornalista Carlo Lombardi che chiede un colloquio con il piccole Salvatore all’interno dell’Istituto di osservazione minorile di Potenza. La scansione temporale, oltre che da una scritta impressa sullo schermo, ci è data dalle immagini televisive in bianco e nero della cronaca del derby calcistico Inter-Milan del 15 novembre. Al ragazzino, il giornalista del quotidiano “La Provincia” chiede di raccontare la sua storia, per certi versi «particolare e curiosa».
In un lungo flashback, interrotto pochissime volte, il bambino descrive il suo viscerale amore per il cinema. Ai suoi innocenti occhi il cinema permette di sognare e di fantasticare in netta opposizione con l’idea che ne hanno il padre (per cui si tratta solo di un inutile spreco di soldi), la madre (che non è mai stata al cinema e che lo reputa pari al mondo delle favole) e il paese diviso tra chi ne millanta la potenza e chi invece ne denigra le degenerazioni morali (il prete, ad esempio, in pieno Concilio, ricorda come l’arte dovrebbe essere sotto il controllo etico della Chiesa, capace di discernere con il suo sguardo critico cosa vedere e cosa non).
Salvatore passa gli interi pomeriggi d’estate in sala, attraversa in bicicletta e in compagnia dei suoi amici Alessio e Valentina le campagne assolate e le strade sterrate per arrivare al primo cinema vicino, dove, anche entrando a proiezione iniziata, può godersi le meraviglie dei film mitologici, le avventure di “Maciste alla corte dello zar”, e ragionare sugli effetti speciali del film, ammirandone i trucchi. Il suo mondo cinematografico non ha icone né miti, basta il buio della sala per emozionarsi: non importa che i protagonisti siano Totò o Chaplin o che i film siano di Germi o dei musicarelli. Siamo negli anni della radio, la televisione è ancora un bene di lusso e la portata delle immagini cinematografiche è devastante per chi non riesce a coglierne la forza descrittiva e/o educativa: basta poco per sviluppare lo spirito di emulazione ma Salvatore rimane ancorato per terra, nessun volo pindarico che lo porti ad immedesimarsi con i personaggi, solo voglia di evasione.
Vive un mondo in cui la celluloide colma i vuoti relazionali della famiglia. Mentre il rapporto con la madre è quasi di complicità, più burrascoso è quello con il padre, contadino comunista che sogna un futuro più impegnato per il figlio, costretto sin da piccolo a leggere il “Manifesto” di Marx o a partecipare alle riunioni della sezione locale del Partito Comunista, pretendendo anche la tessera da “giovane pioniere dell’Unità”. Il padre spera che il piccolo possa un giorno trasformarsi in Aurelio, giovane impegnato del posto. E il tutto durante i giorni del malore di Togliatti a Yalta.
Ma il 1964 è anche l’anno in cui il film italiano più discusso del tempo arriva a Potenza. Chiunque discute su “La dolce vita” di Fellini: chi lo considera un “bel mattone”, chi si sofferma solo sullo spogliarello o il seno della Ekberg, chi prova ad abbozzare un’analisi dei contenuti. È un evento vero e proprio, sancito da un’unica proiezione esclusiva annunciata da auto munite di megafoni in giro per tutta la provincia. Ovviamente Salvatore non può mancare e riesce ad eludere il divieto ai minorenni. Ed è proprio per assistere alla pellicola che il piccolo protagonista s’imbatte su un cartello che annuncia la vendita di un proiettore a 16 mm per la cifra di 150 mila lire. Dove recuperare i soldi per realizzare insieme agli amici l’idea di un cinema tutto loro dove proiettare pubblicamente tutte le opere senza censure?
Dopo un paio di giorni di ricovero, Togliatti muore. La sezione del PCI locale decide allora di rendergli omaggio partecipando ai funerali di Stato che si terranno a Roma. Per fare ciò, chiede agli iscritti di versare delle somme come contributo alla causa. A Salvatore balena in mente l’insana idea di rubare quel denaro e acquistare l’oggetto dei suoi desideri, il proiettore.
Ma che farsene di un proiettore se poi non si hanno a disposizione dei film da trasmettere? Chi potrebbe venire in aiuto per realizzare una sala? Ovviamente il parroco, felice di poter finalmente avere il controllo delle immagini. Salvatore si ritrova così ad avere una doppia vita caratterizzata dalla tessera militante al PCI e da quella dell’Azione Cattolica, necessaria per assistere alle proiezioni, facendo così da sponda tra i due ideali.
Del furto del denaro, tenuto segreto all’opinione pubblica, è accusato il giovane Aurelio, reo di essere stato visto entrare nella sezione del partito la notte del reato. In realtà, Aurelio utilizzava il piano alto della sezione come un’alcova per gli incontri clandestini con Virginia, donna sposata e madre della piccola Caterina. Davanti alle accuse rivolte al giovane e all’allontanamento del paese di Caterina con la madre, Salvatore confessa il tutto al padre, che decide di infliggere un’esemplare punizione al figlio portandolo in riformatorio.
Il lungo flashback lascia il passo poi alle conseguenze del dialogo/intervista tra Salvatore e il giornalista. Esce l’articolo, “Un giorno della vita”, che colpisce in maniera profonda il giovane Aurelio. Grazie all’intervento di Lombardi, la locale sezione del PCI riesce a “partecipare” al funerale del loro leader politico vedendo le immagini realizzate per un documentario dai fratelli Taviani, grazie al proiettore che nel frattempo il prete aveva consegnato ai “giusti” proprietari.
Anche il padre del piccolo Salvatore comprende il valore della portata del cinema e forse riesce a trovare una spiegazione ai sogni del figlio. Convinto da Aurelio e dal giornalista, decide così di chiedere un permesso speciale al direttore del riformatorio e accompagnare Salvatore alla visione del film che più aspettava, il seguito delle avventure di Maciste, “Maciste e la regina di Samar”. Il cinema, dunque, finisce con il concretare i sogni di due generazioni a confronto, permettendo partecipazione collettiva ed evasione.
Una favola, quindi, sull’amore per un’arte spesso sottostimata e legata a concezioni morali. La scena finale della commozione di Salvatore di fronte alla visione di un film in compagnia del padre profondamente cambiato meriterebbe davvero 5 stelle, soprattutto da parte di chi in quei occhi ha ritrovato i propri ricordi e le proprie sensazioni. Il regista arriva dritto al cuore senza bisogno di riempire la trama con toni da melassa, tuttavia è la realizzazione impostata su ritmi e dialoghi da fiction televisiva che non fa decollare il progetto.
Troppi sono i richiami con opere già viste: i film di Tornatore, in primis, da “Nuovo cinema Paradiso” per la tematica a “Malena” (identica la scena e le reazioni del paese ad una passeggiata di Virginia, l’amante di Aurelio); “Io non ho paura” di Salvatores per le immagini della campagna lucana sotto il sole d’estate; i film della serie “Don Camillo” per via del rapporto comunismo/cattolicesimo reso con toni divertiti e divertenti, anche quando le scene richiederebbero maggior coinvolgimento drammatico (le battute scambiate al momento della consegna del proiettore dal prete e dal segretario della sezione sono scontate e prevedibili); i film di formazione, “Billy Elliot” davanti a tutti, con la contrapposizione padre/figlio sul futuro.
Notevole è però il lavoro di scenografi e costumisti nel ricostruire il paese degli Anni Sessanta, con l’uso di abiti di scena del periodo e l’allestimento di piazze, locali ed edifici del tempo (se avesse avuto un budget maggiore il film non avrebbe avuto niente da invidiare all’impianto scenografico di “Baaria”, altro titolo di Tornatore), aiutandosi anche con le locandine cinematografiche del tempo, da “Sedotta e abbandonata” a “Perdono” (piccola incongruenza, il film è di qualche anno dopo).
La sceneggiatura presenta qualche buco soprattutto nella delineazione dei coprotagonisti adulti: il ruolo femminile, troppo represso e con un solo cenno di reazione, non va oltre il solito cliché della donna meridionale mentre troppo di “rigore” appare il personaggio del padre, nonostante la catarsi finale.
Dei grossi limiti sono rappresentati dal non aver approfondito i pensieri e le reazioni alla visione di un film da parte degli adulti (qualche commento è lasciato alla nonna del piccolo Alessio, contraria al deterioramento dei costumi fino a quando poi la Chiesa non la convince che il cinema non è peccato e ai commenti di coloro che “spiano” chi entra in sala a vedere il capolavoro felliniano) mentre solo accennate sono le reazioni di meraviglia dei piccoli protagonisti (il divertimento per le ombre cinesi generate dal proiettore, l’emulazione del giovane che controlla i propri muscoli di fronte alla locandina del film di Maciste, la camminata alla Chaplin di Gennarino, fratello diversamente abile del piccolo Alessio, dopo aver assistito alla prima proiezione cinematografica in chiesa). Così come poco convincente appare la disamina politica che muove le contrapposizioni del paese, si accenna alla terra e all’idea di rivoluzione proletaria ma nessuno sembra agire, solo chiacchiere e progetti. L’unica vera azione, la partecipazione collettiva ai funerali, non trova neanche realizzazione. E il perbenismo finisce con l’agguantare anche chi in realtà dovrebbe avere ideali più moderni, soprattutto nell’estromettere Aurelio dal partito dopo aver saputo della sua tresca amorosa.
Gradevole è invece l’innesto di spezzoni di pellicole del tempo, dai vari “Maciste” alla scena della Fontana di Trevi della “Dolce vita”, dalle scene tratte da “L’emigrante” di Chaplin al trailer originale di “Matrimonio all’italiana” che ci regala un momento di affetto tra Salvatore e Caterina.
Degno di nota è, infine, oltre alla bravura dei piccoli attori Matteo Basso (Salvatore), Francesca D’Amico (Caterina) e Amedeo Angelone (Alessio), l’apporto dato dagli attori professionisti. Alessandro Haber costruisce in levare il ruolo fondamentale del giornalista Carlo Lombardi; Pascal Zullino è la vera sorpresa del cast nel ruolo di Pietro, il padre di Salvatore. Maria Grazia Cucinotta nel ruolo della madre di Salvatore, Amelia, sacrifica la sua bellezza per un ruolo sommesso e poco incisivo, offuscata dalla corposità fisica di Mia Benedetta, nel ruolo di Virginia, capace di ricordare la Loren delle sue prove migliori per via di un personaggio riuscito sia per forza emotiva sia per forza rivoluzionaria. Infine, da applauso la prova di Ernesto Mahieux che nei panni del prete porta un’impronta del tutto personale fatta di cinismo e “bacchettonismo”, tipici di certi esponenti ottusi delle schiere ecclesiastiche.
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