Regia di Takashi Miike vedi scheda film
Ovvero: Miike che cerca di fare il Miike, ma non ci riesce più tanto bene.
Girato palesemente in economia (mai stato un problema per lui), quasi come sorta di rilassamento tra le riprese di due grandi produzioni come Crows Zero e Sukiyaki, è il film che probabilmente si avvicina di più al suo vecchio stile tra quelli più recenti: il gore non manca (ed è cattivissimo con il protagonista nel finale) e la commistione di generi neppure. Tratti di horror e commedia infatti si innestano in questo thriller investigativo che vede due uomini con lo stesso nome (Raita) ma dai modi diversissimi (uno un detective cazzone, l’altro un compassato salaryman) alla ricerca dell’assassino di tre donne, a ognuna delle quali è stato estratto un organo vitale. Queste uccisioni sembrano in qualche modo collegate all’arte di Aoyama Yuki, un pittore decisamente macabro che si rifa al pensiero del filosofo tedesco Steiner. Come se non bastasse il Raita detective deve sbrigarsi a risolvere il caso, dato che la polizia, come sempre brancolante nel buio, lo ritiene il sospettato principale.
Miike è bravo come al solito a gestire il ritmo di quella che è una trama piuttosto ordinaria per un thriller, cambiando spesso il tono della narrazione, dosando i colpi di scena e alleggerendo i momenti più drammatici con la figura di questo detective sui generis, sempre pronto alla battuta e all’occhiolino, pur rimanendo un personaggio non così riuscito, poco adatto a coinvolgere lo spettatore per tutta la durata del film. Non mancano certo alcuni tocchi propri del regista, come la paradossale (e divertente) sequenza conclusiva, e neppure citazioni più o meno esplicite. Palese quella de Il silenzio degli innocenti, quando il Raita detective va a chiedere consiglio ad un assassino sfigurato e costretto all’immobilità che aveva catturato anni prima; sequenza e personaggio totalmente gratuiti, buoni solo a nutrire i fan con la propria iconografia malata. A conferma di ciò basta guardare la copertina del dvd americano, dedicata proprio a questo personaggio che appare a malapena per 10 minuti. Sembra quasi che Miike voglia assicurarci che nonostante i cambiamenti sia sempre lui e tra dipinti fatti con sangue umano, dita mozzate (bella sequenza!) e pervertiti che si masturbano, ci propone una dose di gore e personaggi sbilenchi come non se ne vedevano da qualche anno nella sua filmografia. Non riesce però a convincere; le soluzioni appaiono spesso stanche e riciclate e il tutto è ammantato da un’aura di film da serie B, fattore che in altre occasioni era stata la marcia in più che elevava i prodotti di Miike a veri e propri gioielli, ma che qui è solo sinonimo di mediocrità. Detective Story intrattiene e diverte (moderatamente), ma non basta per farne un buon film questa volta.
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