Regia di Jim Sheridan vedi scheda film
Uno stupendo film sulla disabilità. Che ha per vantaggio quello di avere come protagonista Daniel Day-Lewis, che rende alla perfezione una parte difficilissima.
Tratto, come noto, da una incredibile e splendida storia vera, su di un disabile grave che diventa artista, e poi riesce anche a sposarsi. Semplice, ma per nulla sciatto, nella scrittura e nell’accompagnamento musicale; ottimo per fotografia e scenografia; sufficientemente veloce nonostante ciò sia più difficile per i momenti di rallentamento inevitabili, tesi a concentrare l’attenzione sui riverberi interiori di ciò che accade: tutto è congeniato per essere pulito, onesto, per dare appunto risalto a una storia vera. La quale non indulge minimamente nella retorica: i limiti della realtà ci sono tutti. Il padre, buono ma anche collerico; il contesto di un’ignoranza forte, che trascende facilmente nell’offesa alla disabilità; l’alcol che supplisce alla carenza, per certi aspetti e in certi momenti, di un forte equilibrio interiore a fronte delle avversità; l’esperienza dell’amore, normalmente preclusa ai disabili, che però inevitabilmente ne sentono la potenza, e dunque la relativa frustrazione (per questo lui tenta il suicidio, peraltro in un giorno che doveva essere sin lì il più bello della sua vita per via del riconoscimento pubblico del suo valore); il disadattamento, le tante situazioni forzatamente imbarazzanti, che creano ulteriori frustrazioni rispetto all’occhio medio della società, il quale si fa forte di non potere essere additato di problemi così evidenti almeno in apparenza (pazienza se poi le realtà è ben diversa, e i problemi non così evidenti fanno tanto male anch’essi, e a volte anche di più; l’importante è occultarli, o almeno illudersi di farlo).
Il film è dunque un realistico inno alla vita, alla ricerca di una gioia di fondo costante, più forte di qualunque possibile assalto negativo. La forza di carattere del protagonista è commuovente, a fronte di avversità impressionanti. Ciò che lo sostiene non sono però solo meriti individuali, come tanta retorica capitalista cerca di solito di far vedere (e infatti tale retorica tace di fronte a questi dati di realtà, della possibile felicità di colui che è sfortunato dalla nascita, perché essa dimostra l’infondatezza di tali posizione retoriche, tali da esaltare il merito individuale al di sopra di tutto). Ciò che sostiene il protagonista è soprattutto sociale: per essere meno generici, è l’affetto che ha ricevuto. Il contesto del quartiere, ma soprattutto l’alleanza affettiva della sua famiglia (di cui non si tacciono però le lacerazioni interne, anche terribili, come nel caso del padre manesco, in particolare contro la figlia inaspettatamente incinta), e ancora di più l’alleanza affettiva con sua madre (donna semplicissima e ignorante, ma abbastanza buona da saper voler bene, il che alla fine è la cosa che più conta): questi sono gli ingredienti della sua fiducia nel mondo, quella che gli permette di andare avanti con sufficiente speranza di essere più felice che triste perfino nei momenti più cupi (di cui il film è pieno: memorabili, nel loro purtroppo dolore acuto, i casi in cui manda a quel paese la dottoressa, o si chiude per giorni sotto la coperta). E, oltre all’aiuto di amici e a quello ancor più importante della famiglia (in cui la madre ha il ruolo principale), per un successo di questo tipo, così arduo ma comunque indispensabile, non è meno basilare l’appoggio di una buona politica: solo una seria politica sociale può permettere una rieducazione e un potenziamento delle capacità, che siano affidate a persone competenti. Senza di questo, resta la buona volontà: la quale da sola può fare anche disastri, o nel migliore dei casi non può bastare, in queste eventualità così serie della vita, sempre possibili per chiunque.
Infine, questo film, e questa biografia più che altro, sono un inno alle possibilità vere dell’arte: di esprimere (nel senso etimologico di “spremere”, cioè di tirare fuori ciò che non è facile) ciò che più conta per la propria felicita, ovvero le emozioni e i desideri di fondo. Nella convinzione che tali emozioni, se non trovano espressione in qualche modo, diventano il nemico di ogni felicità possibile, proprio per il loro mancato collegamento con la realtà, che è l’unico banco di prova dove alla fine si possano soddisfare.
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