Regia di Jim Sheridan vedi scheda film
Dopo la visione del film, ho voluto leggere anche il libro da cui è tratto, perché anche un ottimo sceneggiatore non può che fare un sunto, non può evitare omissioni e l'autobiografia di Christy Brown (1932 - 1981) è certo opera pregevole, scritta con passione tra i diciotto e i vent'anni. E' il suo primo libro, cui seguiranno opere letterarie di poesia e prosa tra cui spicca "Dal fondo della vita" che è diventato un testo rilevante per la letteratura del '900 irlandese.
Il regista e co-sceneggiatore Jim Sheridan ricostruisce fedelmente l'ambiente della Dublino degli anni '30 fino agli anni '50 in cui la famiglia Brown, composta dai genitori e tanti figli, in tutto ventidue, dei quali nove deceduti in tenera età, appartiene al ceto povero ma dignitoso che popola quella periferia di case disadorne e dimesse in cui anche ogni pensiero d'emancipazione pare fiaccato. Christy (Daniel Day-Lewis) è uno dei fratelli di mezzo, il decimo ed è evidente già dai primi mesi di vita che è affetto da una grave malattia, una paralisi cerebrale che impedisce di coordinare ogni movimento. Figura centrale è la madre (Brenda Fricker), occupata con tanti figli ma che mai smette di attendere un miglioramento in quel figlio sventurato. Se ogni parte del corpo non si muove, non è lo stesso per la mente e la coscienza: finalmente uno sfogo: questa volontà imprigionata, riesce a trovarlo nel piede sinistro che, come scrive lo stesso Brown: "Era […] il mio principale mezzo di comunicazione con il mondo esterno, il solo per farmi capire dai familiari. A poco a poco esso mi divenne indispensabile. Così mi riuscì di abbattere alcune delle barriere che mi separavano dai miei: possedevo una delle chiavi della mia prigione."
Con quell'unico gesto, ben riproposto nel film, di scrivere la parola "MAMMA", Christy guadagna fiducia in sé, mentre la consapevolezza cresce con l'età e il desiderio d'esprimere i propri sentimenti diviene urgente, addirittura essenziale. Per mezzo di quell'unico arto inizia anche a dipingere e senza insegnamento, le sue opere sono spontanee, potremmo definire naïf per la semplicità e la cura per particolari cui comunemente i pittori non si accostano: " Presto disparve la disperazione che mi aveva torturato; nel dipingere provavo un sentimento di pura gioia, un sentimento sconosciuto fino ad allora e che sembrava sollevarmi al di sopra di me stesso." Christy vince anche un concorso e diviene famoso, la sua foto mentre dipinge è pubblicata sui giornali.
Ad un certo punto della sua continua evoluzione interiore, s'accorge che coi pennelli ha un evidente limite, associato alla difficoltà di comunicazione verbale; decide quindi, con rinnovato impegno di leggere quanto più gli è possibile e di fissare sulla carta le proprie idee e divulgarle. D'aiuto sono i fratelli che scrivono su dettatura, oppure lui stesso si serve d’una matita o della macchina per scrivere. Il preciso montaggio del film, con vari flashback e l’interpretazione straordinaria di Daniel Day-Lewis (gli valse l’Oscar come miglior attore protagonista nel 1990) ne fanno un’opera di forte presa emozionale ma mai di pietismo né commiserazione. Anche le situazioni più dolorose, sono stemperate da quella che veramente fu la consueta onestà e spontaneità della famiglia Brown: d’affrontare unita e senza discrimine la sventura del congiunto.
Christy Brown è stato pittore e scrittore, ma di questa biografia vogliamo notare sopra ogni opera, sopra quadri o testi letterari, l’impresa di adeguare l’esigenza d’essere “normale” alla consapevolezza che è solo attraverso un doloroso processo di accettazione che si può vivere comunque e certo onorevolmente. Brown compie, affrontando la vita, una duplice operazione: ci lascia opere d’arte e imprese che raramente si trovano così congiunte ed inseparabili e hanno la forza di affrontare il tempo, senza che se ne perda memoria.
Solo per dovere di completezza o di relazionare i fatti, va ricordato che quest’uomo concluse la propria esistenza in modo drammatico ma questo non va a modificare il buon senso che vogliamo avere nel comprendere la sua vicenda, anche contraddicendo ciò che scrisse: “qualcosa d'incurabile era in me, e questo mi avrebbe impedito di avere relazioni veramente umane, di espandermi come gli altri uomini”. Ci sono gli infermi nel fisico, è un dramma, ma se c’è bisogno di sollievo per queste inabilità, dovremmo ricordare che ciò che accomuna tutti, è la consapevolezza che è soprattutto il nostro spirito, il nostro essere interiore che esige le maggiori cure: perché, prima o poi, sopraggiunge il momento che la coscienza richieda, in qualche modo, d’essere confortata e rasserenata.
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