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Mia moglie per finta

Regia di Dennis Dugan vedi scheda film

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La recensione su Mia moglie per finta

di Spaggy
6 stelle

Danny, giovane americano, qualche minuto prima delle nozze, origliando una conversazione tra la futura sposa e le amiche, scopre che la donna non è chi immaginava che fosse: il loro sarà un matrimonio di facciata, niente amore e soprattutto niente rispetto. Decide così di annullare il matrimonio e affogare i suoi dolori nei bicchieri d’alcol di un bar. Al bancone conosce una ragazza che ammaliata dalla fede al dito dell’uomo si concede a lui facilmente. Danny realizza così che l’anello nuziale al dito di un uomo conferisce più fascino nell’arte del “rimorchio” e di conseguenza non si libererà mai più della vera. Passano vent’anni e Danny è un uomo realizzato dal punto di vista lavorativo, è un chirurgo plastico con uno studio medico in proprio, assistito dalla fedele Katherine (divorziata con due figli al carico). Inoltre, segue ossequioso ciò che si può definire “potere della fede”, che gli garantisce una donna diversa per sera a cui non promettere nulla sul futuro. Del resto la sua filosofia è abbastanza spicciola: niente impegni per il domani, niente relazioni serie. Almeno fino alla sera in cui conosce la studentessa Palmer, ad una festa a casa di amici comuni. Durante la festa, a causa di una medicazione al figlio dei proprietari di casa, Danny toglie la fede e la ripone nelle tasche dei pantaloni. Credendolo un uomo libero, Palmer comincia a flirtare con lui. Danny e Palmer trascorrono la notte insieme sulla spiaggia. Al risveglio, mettendo casualmente le mani nei pantaloni dell’uomo, la ragazza trova la fede e chiede spiegazioni, sentendosi presa in giro.
Nel tentativo di riconquistare la ragazza, Danny racconta di essere separato e presenta come sua ex moglie Katherine. Sarà l’inizio di una serie di episodi incentrati sull’equivoco e sul compromesso: a infierire ancora di più sulla storia già precaria saranno i due figli di Katherine, costretti a fingere dietro accordo “economico” di essere anche figli di Danny, e un viaggio alle Hawaii che riserverà sorprese e nuovi sentimenti per tutti.
 
Il regista Dennis Dugan dirige per la sesta volta quello che ormai possiamo definire il suo attore feticcio, Adam Sandler, in una commedia che rimarca lo schema narrativo di “Fiore di cactus”. Quelli che una volta erano i ruoli di Walter Matthau, Ingrid Bergman e Goldie Hawn oggi appartengono a Adam Sandler, Jennifer Aniston e Brooklyn Decker. Rispetto all’originale, ad essere ribaltata è la condizione iniziale: nel film di Saks, Julian ricorreva all’assistente Stephanie, costretta a fingersi sua moglie, per non sposare la giovane Toni mentre qui Danny ricorre all’assistente Katherine, costretta a fingersi l’ex moglie, per sposare la giovane Palmer. Il finto matrimonio è in entrambi casi il mezzo scelto dai nostri eroi per raggiungere il loro scopo, così come la slapstick comedy è la forma visiva in cui tutto ciò si dipana. Il problema del film di Dugan è, però, dato dalla caduta di stile di certe battute volgari che lo portano ad un livello di poco superiore a quelli della commedia demenziale americana. Si può tranquillamente affermare che se non fosse stato per un paio di grevità sparse qua e là, si potrebbe parlare di commedia romantica accentuata anche dall’inevitabile happy end, prevedibile ma non fastidioso, raggiunto dopo una serie di prove superate.


Per la prima volta si ha anche la percezione che sia Sandler sia la Aniston siano scesi dai piedistalli su cui stavano da tempo, finalmente recitano e sembrano impegnarsi seriamente per risultare credibili in personaggi forse fin troppo approfonditi per il genere. A prima vista, i due interpretano personaggi già noti al grande pubblico, il ragazzo scapestrato e forse stupidino e la fidanzata d’America. Riflettendoci, invece, ci si accorge come i due personaggi di partenza si evolvano e si avvicinino durante il corso della storia, arrivando ad un punto medio comune sancito da una delle scene più spassose che vede Katherine e Danny cimentarsi in un “ballo del cocco” demenziale in cui sfidano una vecchia amica/nemica di lei, la vera Devlin a cui Katherine deve il nome con il quale si presenta a Palmer. I due personaggi crescono insieme e perdono gran parte delle paure che li attanagliavano, prima tra tutte l’idea di famiglia. Entrambi non hanno avuto esperienze esaltanti con l’altro sesso: Danny è demoralizzato dal primo matrimonio mai celebrato mentre Katherine è vittima di un primo matrimonio sfumato, entrambi non hanno avuto la forza di crearsi nuovi rapporti stabili nonostante abbiano l’esigenza dei rapporti di famiglia, aspetto che si accentua maggiormente nel momento in cui Danny interagisce con i due pestiferi figli di Katherine, Maggie e Michael. E la chiave di svolta sta proprio in ciò, basta notare come Danny diventi improvvisamente padre e come Katherine ammiri quest’aspetto. E in tutta la storia non c’è nessun altro elemento delle famiglie dei due: se di Danny conosciamo solo il miglior amico, Eddie, un nerd cresciuto con cui ha un rapporto di complicità, di Katherine conosciamo solo la vecchia amica/nemica Devlin, con cui ha un rapporto di rivalità sin dai tempi del liceo e che incontra casualmente alle Hawaii (costringendola ad una finzione ribaltata: per non apparire “sfigata”, Katherine finge che Danny sia suo marito). Possiamo rivedere in Eddie e Devlin l’alter ego dei due protagonisti, sono le loro versioni meno razionali e più istintive. Eddie è il Danny senza sovrastrutture, allo stato zero, mentre Devlin è la Katherine più elaborata. Ovviamente il confronto con il proprio doppio non è mai immune da scontri e quello tra le due donne è acido e verbalmente violento (in una delle scene più spassose, le due si sfidano a colpi di danza hawaiana, l’hula hula, quasi una parodia dello scontro tra cigno bianco e cigno nero) per poi sfociare in una solidarietà inaspettata.


E solidarietà tra donne esiste anche tra Palmer e Katherine: nonostante le apparenze e i corpi mostrati in bikini a rimarcare come una quarantenne possa competere con una ventenne (grazie anche al “segreto di Cary Grant”, fare sempre le scale a piedi), le due donne non vivono mai la rivalità innata tra ex moglie e futura moglie, su cui si poteva giocare molto, si instaura invece tra loro un rapporto di complicità e sana invidia per ciò che una ha potuto vivere a fondo prima dell’altra (e simbolico è il colloquio tra le due all’interno della beauty farm durante la giornata che alle Hawaii dedicano al benessere). Anche se va sottolineato come spesso Palmer rientri nel classico cliché della ragazzina: nonostante la maturità mostrata per credere in determinati valori, emergono tratti da teen ager, come ad esempio la passione per una boyband scioltasi qualche anno fa (gli ‘N Sync) e la lettura di una rivista per adolescenti (“Seventeen” è paragonabile al nostro “Cioè”, per intenderci).


Altri personaggi ben costruiti sono quelli dei due figli di Katherine, bambini diabolici e manovratori delle mosse di Danny. Si muovono dietro pretese economiche e ricatti morali, senza escludere colpi bassi e fissazioni da adolescenti. Sono piccoli viziati cresciuti da una tata sui generis e da una mamma che per non far sentire l’assenza del padre ricopre entrambi i ruoli, ponendo i bambini sul suo stesso piano. Non ha esitato a raccontare segreti inerenti a Danny e ciò dà ai piccoli un’ottima arma per contrattare e interpretare la farsa a cui sono chiamati. Se la piccola Maggie, con il sogno di divenire attrice, riesce ad ottenere da Danny un compenso economico cospicuo per la “parte da interpretare”, il piccolo Michael riesce a coronare il suo sogno, quel viaggio alle Hawaii che tutto cambierà per sempre. Nonostante le apparenze sono però dei bambini emotivamente fragili, tanto che ben presto imparano a vedere in Danny quel padre con il quale non hanno potuto divertirsi e star bene prima e del quale si fidano, tanto da spingere il piccolo Danny a vincere la sua paura dell’acqua imparando a nuotare. Immensi i due piccoli attori, Bailee Madison e Griffin Gluck.


Non va negato che spesso durante la durata eccessiva della pellicola, 116 minuti, si rida davvero di gusto. Lo schema della slapstick comedy del resto è semplice, basta una caduta al punto giusto per richiamare il sorriso. Oppure basta una battuta al vetriolo, e spesso politicamente scorretta, per far cadere i preconcetti: le scene ambientate all’ambulatorio di Danny giocano sul mito del “freak”, anche se la mostruosità non è data dalla natura ma dal bisturi, così come appaiono fortemente critiche le scene ambientate durante la festa in cui Danny incontra Palmer o lo scambio di battute sulla liposuzione tra Danny e Devlin, con una Nicole Kidman pronta a prendersi in giro e ridere di se stessa. Da notare come la Kidman dia la sensazione, durante i pochi minuti in cui appare in azione, di divertirsi in un ruolo lontano dalle sue ultime apparizioni, addirittura sembra quasi di non riconoscere l’attrice appena vista in “Rabbit Hole” (ha tempi comici che non ci si aspettava), in cui riscopre anche tutta la sua carica erotica (il ballo della hula-hula ricorda la miglior Satin di “Moulin Rouge”, richiamata anche dalla ritrovata chioma rossa).


Ma la risata ricercata e voluta a tutti i costi è anche la causa della perdita qualitativa. Pur di divertire, si gioca sporco ricorrendo anche a una dose di volgarità o cattivo gusto che era meglio evitare. In molti punti non siamo lontani dai cinepanettoni di nostrana memoria, soprattutto se in scena c’è Eddie, tenuto in piedi dall’attore Nick Swardson: trivialità sulle misure del suo organo sessuale (allungato chirurgicamente), parentesi al limite dell’irreale (la rianimazione della pecora morta) e sui bisogni corporei; odioso è poi il suo finto accento tedesco quando si finge il futuro marito di Katherine per reggere il gioco a Danny. Tra l’altro, la storia della pronuncia non americana diventa farsa quasi razzista nel film: se Eddie parla con cadenza tedesca, la piccola Maggie si diverte a “recitare” con accento britannico. Riescono a far sorridere ma portano a chiedersi il perché di tale espediente, è inutile e per nulla funzionale: appesantisce i ritmi stessi e aliena ogni possibilità di empatia.


Criticabile è anche la scelta di riprodurre la famosa scena dello shopping di “Pretty Woman”, anche se in chiave diversa. Nel momento in cui Danny chiede a Katherine di fingersi la sua ex moglie, i due vanno insieme per costosi negozi alla ricerca di un look credibile per l’assistente. Unica ancora di salvataggio e differenziazione dal film di Marshall è lo spassosissimo dialogo all’interno di un costoso negozio di scarpe tra Katherine, Danny e la commessa del negozio. 


"Fiore di cactus"? No, semplicemente spine di cactus. Peccato aver sprecato l'occasione giusta per sdoganare definitivamente Adam Sandler.

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