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Il mio nome è Scopone e faccio sempre cappotto

Regia di Juan Bosch vedi scheda film

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La recensione su Il mio nome è Scopone e faccio sempre cappotto

di giurista81
4 stelle

 

Produzione di una certa importanza che vede tornare nei western di seconda fascia quell'Alberto Grimaldi che aveva lanciato il Sergio Leone del dopo Per un Pugno di Dollari, oltre che Sergio Sollima e Sergio Corbucci. Alla regia troviamo l'interessante e valido Juan Bosch Palau (che non è affatto uno pseudonimo di Iquino come ribadisce, a torto, Antonio Tentori nel volume Per un Pugno di Dollari edito dalla Profondo Rosso di Luigi Cozzi), già visto dietro alla macchina da presa in interessanti prodotti low budget quali I Corvi ti Scaveranno la Fossa o l'horror Le Notti di Satana. Bosch Palau è un buon regista, molto vicino al taglio italico piuttosto che al melò tipicamente spagnolo alla Romero Marchent. Nella fattispecie si trova a mettere in scena un western figlio dei successi di Trinità, scritto dalla stesso regista rubacchiando a destra e manca. Si parte subito con un prologo che ruba dal western di quarta fascia Shango – La Pistola Infallibile (1970) di Edoardo Mulargia, da cui viene ripresa la trappola dal retrogusto vietcong con Sancho rinchiuso dentro e appeso a un albero (nel film di Mulargia, dentro, c'era Anthony Steffen). Il copione poi attinge situazioni e sviluppi da Sergio Leone, Enzo Barboni e Giuseppe Colizzi e volge il tutto verso una commedia tendente in alcuni passaggi al demenziale.

Anthony Steffen viene proposto in un ruolo diverso dal suo solito. Non è più il pistolero indolente e sofferente, ma si trasforma in una canaglia alla Terence Hill che si diverte a sfottere gli avversari, a metterli l'uno contro l'altro e a fingere (nelle scazzottate) di essere ubriaco. Non a caso lo si vede anche sorridere e la cosa è rara per lui, È l'elemento furbo e dominante della coppia completata da Fernando Sancho. Il messicano dalla risata facile mutua il ruolo canonica che i registi erano solito affibbiargli, sebbene qua sia caratterizzato da uno spiccato taglio comico. Incarna infatti un personaggio che si chiama Lumacone e che viene spesso ripreso nell'atto di defecare (lo si vede persino scappare a brache scoperte, dopo che il bagno in cui si trova è stato fatto saltare da Steffen). Steffen, che se lo porta dietro come socio imbranato ma fisicamente forte, gli fa ingoiare un pezzo di vetro suggerendo al manigoldo di turno (Claudio Undari) di aver così celato uno smeraldo dal prezioso valore (almeno trenta carati). L'altro, avido e idiota, penserà bene di costringere Sancho a bere una bottiglia di olio di ricino per fargli così cagare il gioiello. Bosch Palau propone la sequenza con gusto comico. Il soggetto si caratterizza nei giochi continui di Steffen, nelle più assurde torture a danno di Sancho e nella presenza di due terzetti, l'uno contrapposto all'altro, che cercano di mettere mano su una miniera finita in proprietà della bella (ma fredda) bionda Gillian Hills, ammirata in Blow Up di Antonioni. Steffen finge di accordarsi ora con uno, poi con l'altro, ma alla fine lascerà alla bionda la miniera per la quale era giunto in paese, perché un tempo di proprietà del padre che l'aveva persa a poker riservandosi la possibilità di una rivincita a carte.

Tra le sequenze trash si cita la scazzottata su un ring rabberciato tra il duo Sancho e Steffen contrapposto a una squadra internazionale di pugili (grossi ma imbranati) assoldati dallo scorretto e infido Rompimani (così chiamato perché stritola le mani nella stretta del saluto), uomo che promette soldi e poi non paga mai (Steffen farà in modo di fargli andare contro i pugili, inviperiti per i mancati pagamenti). Bosch Palau sembra parodiare la sequenza presente in I Quattro dell'Ave Maria (1968) di Colizzi e, forse non a caso, trucca Ricardo Palacios (nei panni di Rompimani) da Bud Spencer, facendo in modo che sia Glauco Onorato a doppiarlo.

Contrapposto al terzetto capitanato da Rompimani, c'è quello dei fratelli Bright rappresentati da Claudio Undari. Costantemente col cappello in testa (per coprirne le calvizie), Undari sembra scimmiottare Montefiori e mastica di continuo una gomma. Bullo e despota, tiene in mano lo sceriffo (Sergio Doré) di zona, un ubriacone che non fa altro che bere alla bottiglia e che è incapace di ribellarsi. Nonostante questo si rivelerà deficiente, un perfetto bersaglio per le trovate di Steffen che finge di collaborare per Rompimani, ma poi intende fare le scarpe a entrambi tanto che i due terzetti gli si uniranno contro.

Questo è Il Mio nome è Scopone e Faccio Sempre Cappotto, così intitolato in ossequio ai vari Carambola e Tresette, sebbene non vi siano personaggi che si chiamano Scopone. Steffen è semplicemente Dallas.

Musiche (di Marcello Giombini) da comica anni venti, con Bosch Palau che gioca in montaggio accelerando le immagine di uomini in fuga, costretti a correre “a mele strette” dal rituale di Steffen. Il brasiliano, infatti, decide ogni qualvolta di porre fine alle liti, proponendo ai suoi avversari un brindisi con una bella bevuta di un alcool esplosivo, un liquore a base di nitroglicerina, che lui tiene dentro una borraccia bizzarra applicata alla sella. Solo dopo aver distribuito in bicchieri, Steffen mostra la natura del liquido e invita i rivali ad allontanarsi.

Western divertente, ben diretto ma piuttosto scemotto.

 

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