Regia di Roselyne Bosch vedi scheda film
Parigi, 1942. Il vento di primavera spazza inesorabilmente via gli ultimi residui della città delle canzoni, del Montparnasse, dei Quartieri latini e di Place Vendome. La città della tenerezza, dell’allegria, degli artigiani, la Parigi che Edith Piaf decanterà e vorrà rifar sua in una sua celebre chanson è devastata fisicamente ed eticamente dal male tedesco, la Terza Repubblica ha lasciato il posto alla Francia di Vichy: De Gaulle è volato in Gran Bretagna e il maresciallo Philippe Petain con il suo governo collaborazionista soccombe agli ordini impartiti dalla terrazza di Berghof.
La vita della comunità ebraica di Montmantre scorre tranquilla nonostante gli abitanti siano costretti ad andare in giro con la loro lettera scarlatta, il simbolo del loro reato, la stella gialla di David cucita sul petto e ben in vista. La città sembra vivere la situazione con un occhio ambivalente: chi si indigna e chi invece appoggia la deriva folle imposta dalla Germania, chi accoglie in seno alla propria famiglia gli ebrei e chi invece non perde occasione per deriderli. A Montmantre c’è la portinaia di origine tedesca disposta a far da sentinella ma c’è anche la fornaia che rifiuta la convivenza… e il tutto in una serena atmosfera di non rassegnazione: mentre i bambini giocano, gli adulti aspettano il giorno in cui tutto finirà continuando le loro vite lavorando (non tutti gli ebrei sono dei geni e non tutti navigano nell’oro) in frammenti di lacerante quotidianità normale. Fino al momento più violento: Vichy decide di radunare 25 mila ebrei stranieri, apolidi e senza cittadinanza francese, e consegnarli nelle mani del Fuhrer, due giorni dopo la Festa Nazionale del 14 luglio.
La notte del 16 luglio 1942 rimarrà una delle più oscure della città di Parigi nonostante il giorno inizi alle 4 del mattino. Le forze militari collaborazioniste invadono case, devastano intimità, rastrellano selvaggiamente donne e bambini, spingono al suicidio giovani vite indifese: l’ordine è inviolabile, rastrellare il numero di ebrei che Hitler aveva richiesto per dimostrare che la Francia era dalla parte della grande potenza tedesca. 13 mila persone vengono rinchiuse e trasferite al Velodromo d’Hiver tra condizioni igieniche inesistenti e stati di salute precari per via di gente rubata ai nosocomi, agli ospizi, agli orfanotrofi. Un misto di vita e urina, di sorrisi infantili e influenze tifoidee, di speranza per un imminente trasferimento nei territori ebrei dell’Est e digiuno forzato. Dei 13 mila deportati, 4051 erano bambini. Ad assisterli solo un medico della Croce Rossa di origine ebraica, il dottor David Sheinbaum, e le infermiere, tra cui spicca per dedizione e umanità l’esile ma battagliera Annette Monod, di religione protestante.
Al Velodromo rimangono solo per un paio di giorni. Trasferiti ad Austerlitz, partono subito per il campo di Beanu La Rolande, nel dipartimento del Loiret. Casermoni in legno, circondati da filo spinato e guardie accompagnate da feroci pastori tedeschi, giorni di sottoalimentazione e di speranze fugate, di tentativi di dignitose reazioni represse e di giochi per bambini, di suore che portano in dono calde brioches e di cure amorevoli di David e Annette, che per segno di protesta scrive continuamente al prefetto e segue lo stesso labile regime alimentare. Fino al momento di una delle decisioni più efferate: i genitori, gli adulti, verranno trasferiti ad Est mentre i bambini continueranno a rimanere al campo. Decisione voluta direttamente da Hitler: i forni crematori erano intasati, così come le camere e gas, quindi necessitava di tempo per accogliere altre vittime.
Tra i bambini presenti al campo il piccolo Joseph, figlio di Schmuel e Sura Weismann, con l’aiuto di Annette riesce a scappare in compagnia di un amichetto e a mettersi in salvo proprio la notte prima che anche i bambini vengano condotti nei campi di sterminio.
Il film di Rose Bosch, uscito in Italia proprio in occasione del Giorno della Memoria, pur nella sua didascalica sequenza di eventi, va a situarsi nella stessa linea d’impatto emotivo che opere come “Schindler’s List” o come il nostro “Perlasca” avevano già magistralmente cavalcato. Non siamo di fronte al capolavoro realizzativo ma non vanno sottovalutati gli intenti che la regista si era riproposta e che ha saputo raggiungere, scandagliando gli aspetti di un tema ancora particolarmente sentito dalla Francia revisionista. Quello che più colpisce è la scelta fatta dalla regista di dividere il film in tre temi principali: la normalità, l’orrore e il gioco.
La normalità è quella che caratterizza la vita della comunità ebraica. Pur coscienti del periodo di difficoltà (nessuno osava immaginare ciò che avrebbe riservato loro la Storia), ognuno continua la sua esistenza, tra lavoro in tipografia, camicie da stirare e lezioni di danza. Ognuno conserva il coraggio di ribellarsi, non c’è un briciolo di rassegnazione o di atteggiamento remissivo, non c’è sconfitta morale… al momento della retata ognuno prova a realizzare la propria via di fuga (anche con il suicidio stesso), ognuno mantiene una sana lucidità mentale (un ex combattente chiederà persino a una guardia della milizia francese di sapere dove saranno portati, forse in nome della Patria e del sentimento di appartenenza alla Francia).
L’orrore del Velodromo d’Hiver invece è l’anticamera di ciò che avverrà nei campi di concentramento. Fame, sete, stenti, punizioni corporali, medicine inesistenti, latrine intasate e lo spettacolo… lo spettacolo dell’avvicinarsi della morte, presagito dai grandi e mai nominato, e lo spettacolo delle biciclette atteso dai bambini, un gioco che rimanda alla triste consapevolezza di essere loro il vero spettacolo. La macchina da presa abbandona la staticità del carrello e si avventura nella danza del movimento a mano, divenendo quasi crudo documentario romanzato.
E il gioco del campo del Loiret. Il gioco dei bambini, che comincia sin già sotto la prima doccia, liberatoria dell’incubo velodromo, e che continua sotto ai campi di filo spinato, nella danza del giorno prima della separazione dei genitori… il gioco della retata che da realtà atroce porta alla fantasia della speranza, dal tumulto alla ribellione. Inquadrature a misura di bambino, sguardi colmi di speranza e barlumi di realismo, di fiducia negli adulti e di silenzio vissuto. Come lo sguardo del piccolo Nonò, il più fragile tra i bambini, che crede di poter ancora raggiungere la madre creduta viva ma già morta all’Hiver.
Voluto e prodotto dallo stesso team creativo di “La vie en rose”, il film non lesina in scenografia e fotografica, le scene di massa sono reali scene di massa: più di 10 mila comparsa all’interno della fedele ricostruzione ungherese del Velodromo… Recitazione impegnata e delicata da parte degli attori, un credibile Jean Reno nei panni del medico ebreo ma soprattutto un’eccelsa Melanie Laurent, nel ruolo forse più sofferto della sua carriera e in netta opposizione con quello del film che l’ha posta all’attenzione mondiale, “Bastardi senza gloria”, la crocerossina Annette Monod, personaggio reale dalla forte tempra in lotta con la costituzione gracile, accentuata dalla scelta di seguire lo stesso regime alimentare fatto di zuppa vuota e scarafaggi destinata ai deportati, donna simbolo di speranza, ribellione e possibilità di scelta.
Si, un film sulla scelta della parte da occupare e delle decisioni da prendere. Come ben dimostrato, non tutti i Francesi erano dalla parte della Germania. Per Hitler la deportazione degli ebrei “francesi” del 1942 fu un insuccesso clamoroso: dei 25 mila ebrei schedati, ne racimolò poco più della metà, quasi un affronto. Ben 12 mila furono messi in salvo dagli amici francesi e da tutti coloro che erano mossi da sentimento di umanità e cordoglio, come la portinaia tedesca che con il richiamo del gatto avvisa dell’arrivo delle truppe tedesche, come i pompieri che irrompono e portano l’acqua, la vita, all’interno del Velodromo, come il militare francese che aiuta una delle giovani ragazze a fuggire.
Molti i racconti su personaggi realmente esistiti e basati su testimonianze dei superstiti, anche se non sempre si rispecchia l’esatto ordine cronologico degli avvenimenti. Molte le scene che portano alla commozione: dalla già citata scena in cui il piccolo Nonò corre per primo verso la camionetta nazista che avrebbe dovuto condurlo al campo di sterminio in preda alla fiducia nell’uomo a quella finale in cui Annette ritrova all’interno del Lutetia, a guerra finita nel giugno del 1945, il piccolo Joseph (salvatosi grazie alla fuga) e il piccolo Nanò miracolosamente sopravvissuto (un piccolo happy end di fantasia in un finale storicamente tragico), dalla piccola bambina che spera di regalare le mimose alla madre una volta ritrovata alla scena in cui Annette apprende da un giovane medico l’orrore dei campi di sterminio provando a raggiungere la locale stazione in bicicletta nonostante la febbre altissima.
Un film per non chiudere gli occhi o abbassare lo sguardo, per non negare gli orrori che l’uomo riesce a compiere inseguendo la brama di potere. Uno sguardo coinvolto e coinvolgente sulla follia di un uomo (forse l’unico difetto è quello di aver reso Hitler in maniera troppo caricaturale, come nelle scene in cui è in compagnia dell’amante Eva Braun, tra elucubrazioni mentali e festini) per evitare che gli orrori si ripetano, una profonda critica a chi non ha saputo o voluto opporsi a tanto orrore.
Da melomane, però, non posso non notare una piccola crepa: il film si apre sulle note di “Paris” di Edith Piaf, canzone incisa solo nel 1949. Ottima la struggente chiusura sulle note del “Claire de lune” di Debussy, alla ricerca di quella luna che non ha saputo illuminare quella notte del giugno del 1942, come se si fosse nascosta tra le piaghe del buio della mente.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta