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The Arbor

Regia di Clio Barnard vedi scheda film

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La recensione su The Arbor

di OGM
8 stelle

La storia di un talento letterario minato da una vita sbagliata, e precocemente stroncato da una morte improvvisa. Andrea Dunbar (1961-1990), una donna di soli ventinove anni, viene trovata agonizzante nei bagni di un pub di Bradford, contea di Yorkshire. L’autopsia individuerà la causa del decesso in un’emorragia cerebrale. Andrea beveva e si drogava. Aveva avuto tre figli da tre compagni diversi, e le sue prime due bambine, Lorraine e Lisa, erano nate prima che lei compisse vent’anni. Nello stesso periodo era stata ricoverata in una casa di accoglienza per donne sbandate, ma ciò non era bastato a correggere il corso della sua esistenza.  Che, per certi versi, prometteva di diventare gloriosa: a soli quindici anni aveva scritto un dramma teatrale a sfondo autobiografico che era andato in scena al Royal Court Theatre di Londra, riscuotendo un notevole successo di critica e di pubblico. Questo exploit l’aveva resa famosa, ma non l’aveva salvata dal degrado sociale: una sorta di malattia endemica ed inestirpabile in quel quartiere-ghetto, il Buttershaw Estate, in cui era nata e cresciuta in una famiglia di operai, insieme a sette fratelli e sorelle. Brafferton Arbor era il nome della strada in cui viveva e in cui aveva cominciato a frequentare cattive compagnie: quel punto della città era, del resto, nell’immaginario collettivo, il luogo simbolo della delinquenza e dell’emarginazione. Ed è in quel teatro di follia e depravazione che Andrea decide di ambientare la sua prima pièce, che intitolerà The Arbor. Quest’opera e il film di Clio Barnard trattano, in fondo, lo stesso argomento: il male che è radicato nel territorio e si attacca irreversibilmente agli individui più sensibili,  trasmettendosi anche alle generazioni successive. Il film, precisamente, sviluppa il discorso del dopo, del modo in cui la sventura di Andrea ha portato alla rovina di Lorraine, la sua figlia maggiore, frutto indesiderato della sua relazione con un uomo originario del Pakistan. La fonte ispiratrice è il dramma documentario A State Affair (2000) di Robin Soans, che utilizza la cosiddetta tecnica verbatim: il copione è composto, in buona parte, dalla trascrizione letterale di interviste rilasciate dalle persone reali che verranno interpretate dagli attori sul palco. Nel film, i monologhi sono registrazioni delle testimonianze rese a voce dai parenti e dai conoscenti di Andrea, a cui gli attori adattano la mimica facciale e i movimenti delle labbra, in una sorta di recitazione in playback (che con il termine tecnico inglese è detta lip synching). Il risultato non è sempre del tutto convincente, ma quella parlata irregolare, dalla forte coloritura dialettale, invade la scena con un’ondata di autenticità che vale ben più di ogni armonia estetica. Comunque sia, quell’effetto straniante prodotto dalla sovrapposizione di finzione e realtà si può considerare funzionale alla rappresentazione del paradosso che caratterizza il destino di Andrea: una fortuna artistica proveniente dalla descrizione del disagio, e che, però, non è in grado di riflettersi positivamente sull’esistenza di quella sventurata autrice. La sua poetica trae l’alimento da quell’ambiente crudele e assurdo  in cui è immersa. Le gravidanze minorili, le tensioni familiari, le violenze domestiche,  la microcriminalità sono l’amaro pane quotidiano che Andrea riesce a trasformare in una forma d’arte dura e potente. È l’espressione di un grido che viene direttamente dalla strada, da quelle aiuole incolte dove  i ragazzi del circondario si radunavano accendendo fuochi. Il film cita interi brani dell’opera di Andrea, e li mette in scena proprio lì, in mezzo all’erba, tra mobili da salotto e sedili d’autobus, sotto gli occhi attoniti della gente. Quel teatro improvvisato assomiglia ad una discarica che prenda vita e si metta a parlare, dando un senso verbale alla sua condizione di reietta, data in pasto al caos e all’oblio. La dimenticanza è, in questa tragica vicenda, l’origine di tutte le disgrazie: c’è chi, come Andrea e Lorraine, non riesce a ricordare le lezioni impartite dalla vita, e torna a commettere gli stessi errori; ci sono padri assenti e madri distratte che trascurano grossolanamente i figli,  e c’è, soprattutto l’incapacità di riflettere sul passato per progettare il futuro. La componente intimistica è fatta di denuncia, confessione, sfogo, ed ha quindi una forte connotazione individuale, che non arriva mai ad aprirsi ad una dimensione etica di stampo universale.  Il mondo di Andrea è chiuso in se stesso, e tali sono i suoi abitanti, i cui pensieri vagabondano, senza alcuna meta, in mezzo alle stanze delle loro case, nei loro rifugi di fortuna, nelle celle delle prigioni. L’emarginazione è ritratta come un circolo vizioso mentale, a cui ci si abitua, ma che, nonostante i suoi continui  giri a vuoto,  non consuma mai il proprio potenziale autodistruttivo. Ad esaurirsi subito è, invece, la felicità, insieme alla propensione al bene. The Arbor è un racconto freddo, in cui l’uniformità del tono sembra parte di un’allucinazione: nessuno versa una lacrima e nessuno pronuncia la parola amore, se non per negarla o limitarne il significato: Nostra madre non ci dimostrava mai amore. Non si può amare un figlio più di un altro. Il mio è stato un matrimonio per metà d’interesse, e per metà d’amore.  È la faccia silente del dolore. Quella che non conosce i termini giusti per chiedere aiuto, e per questo non trova sollievo e precipita nel vuoto.

 

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