Regia di Patrick Hughes vedi scheda film
Red Hill è un western. Sarà ambientato in Australia, sarà ambientato nei giorni nostri, ma è un vero western. C’è pure la classica scena dal barbiere e ci sono più cavalli che macchine. Il film d’esordio di Patrick Hughes, regista, sceneggiatore e montatore della sua opera, è un western contemporaneo ed è semplicemente perfetto.
Con una struttura narrativa precisa e senza sbavature e con una resa visiva impressionista, ricercata con una composizione della scena dove gli elementi naturali si fondono ai personaggi e ai segni della presenza umana in una coreografia di armonia e dissonanza degli stessi, Hughes mette in scena un mitologema conosciuto e già sedimentato nel nostro immaginario attualizzandolo, politicizzando e topicizzando l’intera narrazione. È, se vogliamo, pura mitologia affrancata da fastidiosi segnali di contemporaneità. Gli operatori di attualità ci sono, ma vengono dominati dall’impianto mitico western e del valore universale dei caratteri in scena, dei loro spazi e delle loro funzioni.
Dopotutto il film si apre con campi lunghi e lunghissimi fotografando una natura selvaggia e aspra anche se domata dall’uomo. Ci sono cavalli al pascolo e sembra stia succedendo qualcosa di brutto fino quando la macchina da presa chiude sul dettaglio degli occhi terrorizzati dei cavalli. Qualcosa è successo.
Il film poi stacca sull’interno domestico di un giovane neo-sceriffo interpretato da Ryan Kwanten e la prima battuta del film è: “Alice? Hai visto la mia pistola?”. Il ferro, che come si vedrà poi lungo l’arco narrativo, è davvero il prolungamento della virilità del gruppo di sceriffi di Red Hill, violenti, zotici, misogini e razzisti, è un feticcio intorno a cui ruota tutto l’impianto simbolico del film. Inoltre, il fatto che il giovane protagonista, già marito e a breve pure padre, non trovi più il proprio “ferro”, perso negli scatoloni del trasloco, e debba armarsi con gli ersatz dei colleghi per poi trovare metaforicamente la sua virilità, il suo essere davvero uomo, alla svolta narrativa finale, è già una preziosa chiave di lettura.
Abbiamo così il giovane imberbe in un clan di soli uomini e ben armati, una legge distorta secondo gli usi locali, un paesino che si sviluppa lungo una strada principale e sembra pure disabitato, un po’ come la Hadleyville di Mezzogiorno di Fuoco (1952) quando aspetta l’arrivo di Frank Miller. E poi abbiamo spostamenti a cavallo, un pericoloso evaso aborigeno e in cerca di vendetta, l’arrivo in paese del bandito, i duelli, gli inseguimenti, la verità che viene a galla sapientemente senza l’uso di flashback anticipati, ma solo alla fine, senza dare troppe spiegazioni di ciò che succede.
Come in un vero western americano abbiamo topoi che diventano l’ossatura portante della vicenda, veri nuclei tematici attorno ai quali gravitano come satelliti i motivi con cui vengono rappresentati gli stessi. Come in un vero western abbiamo il ritorno del pellerossa, per dirla come Leslie Fiedler. L’aborigeno in cerca di vendetta non apre bocca. È tutto corpo. È violenza. È azione. È partorito dalla terra e da quella terra è aiutato e a quella terra poi ritornerà. Come in un vero western americano, l’aborigeno è il nativo massacrato, umiliato, sradicato dalla sua terra, derubato dalla sua storia, violentato dai bianchi in nome di una civiltà benedetta da un dio bianco, maschio e ricco. Come in un vero western americano, l’aborigeno è il rimosso che torna dall’inferno, è il fantasma di una coscienza colpevole che torna a tirare i piedi di notte a chi non dorme sereno. Inoltre, rievocando Carpenter, questo Jimmy Conway interpretato dall’attore indigeno Tommy Lewis, ha l’incedere metafisico di Michael Myers, calmo, determinato, inarrestabile, quasi immortale. È un valore aggiunto ad un film che già negli elementi tipicamente di genere è perfetto e incisivo.
Altro valore aggiunto è il sub-plot animalesco. La cittadina di Red Hill e la natura selvaggia che la racchiude e che la isola dagli altri centri abitati è percorsa e minacciata da un animale feroce, selvaggio, di provenienza sconosciuta. Nulla di fantascientifico, tutto molto credibile anche se insolito, e permette, nella lettura del animal attack movie di parallelizzare l’arrivo del predatore assetato di sangue con l’arrivo dell’aborigeno assetato di vendetta. Due fiere emerse dall’intrico della wilderness come proiezioni di un’ombra junghiana rappresentata attraverso la referenza archetipale del mondo selvaggio. La ferocità istintiva dell’animale e dell’aborigeno come paralleli della stesso discorso, significanti diversi di un unico significato mitico e universale.
Il finale è ben calibrato, giocato sulle aspettative del genere e della struttura narrativa conosciuta finora, ma rese con evocazione tale da renderle diverse, nuove, originali, nel continuo rinnovamento dell’immaginario condiviso. Un capolavoro che conferma come il western, anche in forme differenti dall’originale, resta imprescindibile sia come racconto dell’uomo occidentale – anche se ad oriente il western è stato più volte usato come nuovo contenitore di storie locali, vedi ad esempio Le Lacrime della Tigre Nera (2001) o Il Buono, il Matto, il Cattivo (2008) – sia come scenario deputato ad un’avventura dell’anima e del corpo con gli attori come fieri cavalieri verticali nell’orizzontale vastità del palcoscenico della vita.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta