Regia di Josh Appignanesi vedi scheda film
L'appartenenza al popolo eletto è sempre stata un'ossessione per gli ebrei. La tradizione biblica distingue tra coloro che costituirono l'alleanza con Dio e coloro che ne furono esclusi, i nemici d'Israele per intenderci (egiziani, babilonesi, filistei). Persino il popolo di Mosè veniva punito da Jahvè, di tanto in tanto, per aver violato il sacro vincolo di amicizia che lo legava al proprio creatore, condottiero e stratega. Appartenere al popolo ebraico significava essere in grazia di Dio e per una discendenza abramitica che dovette penare, non poco, per conquistare un luogo sicuro e stanziale lungo il fiume Giordano, la questione era fondamentale. In gioco c'erano i propri privilegi territoriali ed economici e Jahvè era un vantaggio da tenere ben stretto specie quando altri popoli premevano sui confini. Non si scherza, dunque, con la questione dell'appartenenza alla stirpe di Abramo. Meglio essere dentro che fuori. Meglio avere l'Altissimo al proprio fianco che le guardie del faraone alle costole. Così, in tempi remoti, i saggi decisero che tramandare l'appartenenza fosse più semplice per via matriarcale, perché più semplice da verificare. "Mater semper certa" recitavano i latini ma potrei scommettere circa l'esitenza di una medesima locuzione in lingua aramaica che sintetizzi il bisogno di certezza degli uomini (oggi come in passato).
Questo tedioso incipit giusto per dire che solo dalla testa di un ebreo poteva uscire la sceneggiatura di questo film. A scriverla è stato lo show man britannico David Baddiel, figlio di una donna fuggita all'Olocausto nel 1939. Baddiel si professa ateo ma la cultura instillata nel "cammin di nostra vita" trascende il proprio rapporto col divino. Si può rinnegare la religione d'apparteneza, non si può eliminare il proprio background culturale, non fino in fondo. Baddiel l'ha riversato con straordinaria ironia (ebraica, per l'appunto) in questa storia che ride dell'ossessione sopra citata. Baddel, anzi, fa molto di più. Riversa il problema sulla comunità musulmana partendo da un tesi interessante da me condivisa. Ebrei e musulmani sono più simili di quanto si pensi. E forse proprio per questo litigano di continuo.
Poveretto Mahmud, dunque, quando, aperto un cassetto in casa della madre scopre l'esistenza di un certificato mai visto fino ad allora. Da poco costei si è messa in viaggio verso la Janna, ma la sorpresa del figlio è così grande che Mahmud rischia di ricongiungersi alla madre prima del previsto. Quello che scopre leggendo quel foglio è sconcertante e lo costringe a riavvolgere il nastro della propria esistenza alla ricerca di risposte e radici. A complicargli le cose le pressioni del figlio che innamorato di una bella figliola deve fare i conti con l'uomo che sta per sposare la futura suocera, un islamico fanatico e ultra ortodosso. "The infidel" diretto da Josh Appignanesi è una commedia irriverente che gioca volontariamente sugli stereotipi culturali, nel rapporto turbolento tra il musulmano Mahmud Nasir (Omid Djalili) e il vicino di casa, ebreo, Lenny Goldberg (Richard Schiff). Il rapporto tra i due uomini, nato per caso, è inizialmente burrascoso ma, col fluire del racconto, passa da conciliante a complice grazie alla scoperta dei punti in comune tra Islam ed Ebraismo e soprattutto grazie all'ironica presa di coscienza delle manie di ciascuna religione. Proprio nella riproduzione dei luoghi comuni e nella scoperta delle altrui posizioni sta il successo della prima parte, decisamente più tonica e irriverente. Peccato, invece, per la seconda dove la brillantezza dell'analisi si appanna nel tentativo di trovare un adeguato colpo di scena che porti la narrazione su binari atti a garantire un arrivo calmo e ordinato del treno in stazione. La sferzante ironia lascia spazio al "politically correct" proponendo una soluzione poco credibile per sbarazzarsi dello scomodo consuocero e con esso delle sue posizioni misogine e anti-democratiche. Divertente l'idea del travestimento ripresa, recentemente, in "Cherchez la Femme!" mentre risulta evidente l'omaggio ad "East is east" di Damien O'Donnell, per altro molto più "british" nell'ironia e molto meno accomodante nella ricerca di una salvifica accettazione degli ideali occidentali. Il risultato di Appignani, pur nella discontinuità di rendimento tra la prima e la seconda metà, è più che sufficiente e ciò grazie alle prove attoriali dei due protagonisti e alla leggerezza, mantenuta per buona parte del film, che rende il tutto spassoso e intelligente.
RaiPlay
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