Regia di Alessandro Piva vedi scheda film
Nel formicaio romano gli insetti, laboriosi e disperati, sopravvivono finché possono. Solitari per obbligo e destino, tirano avanti e tirano coca, sputtanando i soci per sputtanarsi le narici fino allo spargimento di sangue. Proprio o altrui. Poi, altre due botte e tutto è rimandato alla prossima crisi. O alla prossima retata. Alessandro Piva entra nel formicaio e, di volta in volta, preleva qualche esemplare di insetto per vivisezionarne la coscienza al microscopio, camera fissa in piano americano su fondo nero. Dalle bocche dei pesci piccoli escono riflessioni estemporanee sul mondo, prima che la macchina da presa torni a girovagare in cerca di altre anime morte tra le vie della Capitale. «Chi è che decide che l’eroina è fuorilegge? Chi ha detto che è peggio delle guerre o delle bombe intelligenti?»: forse il tossico Rocco cerca soltanto una giustificazione e la risposta alla sua domanda manco gli interessa, come non interessa a Piva fornire soluzioni ai quesiti della malavita. In Henry non si alza mai lo sguardo ai vertici del sistema. Niente boss altolocati. Niente alti ufficiali di polizia. Soltanto strisce di eroina (di “Henry”) da seguire strisciando, (in)seguite da mezze tacche come Rocco, femme fatale come Nina, camorristi di quartiere e poliziotti dal naso più o meno bianco. Il Paradiso può attendere, ma anche l’inferno. Le strade di Roma sono solo un ricettacolo di anime purganti, di caratteristi dai volti giusti che escono dagli anni 70 del poliziesco all’italiana per ricordarci le nostre consuetudini di genere. E allora capita che Carolina Crescentini si vesta da Barbara Bouchet per caricare la narrazione di erotismo, o che Alfonso Santagata nei panni del camorrista ci ricordi Mario Merola. L’operazione di Piva non è però sterile citazionismo, ma aggiornamento e ampliamento della materia gangster nostrana sulla base dell’odierno cinema digitale. Più che un omaggio al passato, Henry pare il corrispettivo italico del Pusher di Winding Refn e - nonostante dissemini come specchietti per allodole tarantinate quali l’inquadratura dal bagagliaio - come il fratellastro danese contamina la materia narrativa “pulp mainstream” con un registro visivo a costo ridotto. L’immagine sporca e in movimento incessante riflette la natura bassa e frenetica di formiche operaie in rotta di collisione: tutto torna, secondo le regole del purgatorio urbano.
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