Regia di Alessandro Piva vedi scheda film
La polizia di Roma, dopo aver indagato peracottaramente su un duplice delitto avvenuto nell’ambito della droga, arresta Giovanni (Michele Riondino, conosciuto per il ruolo del giovane Montalbano), un fannullone innamorato trovato in possesso di 10 grammi di eroina e subito imputato di omicidio. Il tutto senza preoccuparsi di confrontare le impronte del ragazzo con quelle lasciate sull’arma del delitto. Giusto per ridere, Giovanni viene messo al fresco per due/tre giorni, in una cella abitata da detenuti non molto ospitali, mentre l’avvocatessa si inquieta per i vestiti sporchi del suo assistito con una faccia convinta e onesta come quella di Buffon dopo l’ultimo Milan-Juventus.
Inizia più o meno così “Henry”, terzo film di Alessandro Piva, tratto dall’omonimo romanzo di Giovanni Mastrangelo. La prima impressione è che Piva abbia buttato dalla finestra una porzione di spaghetti cotti al punto giusto, sprecando un panorama a tinte noir e angolazioni visive alle quali arride un ritmo di montaggio afro beat che fa tanto esotico, mettendo in risalto un mix di generi che vanno dal poliziottesco anni ’70 a venature pulp (ma Tarantino non c’entra niente), più alcune ventate fitness/new age.
Sarà colpa del commissario Silvestri che si mette a regalare perle di filosofia tra un semaforo rosso e uno verde, il quale sembra aver intrapreso un’idea della vita molto più blanda e saggia rispetto a quando era single. Adesso ha una compagna che si prende cura di lui, che gli ricorda di non uscire senza la sciarpa, cucina macrobiotico, elimina la televisione da casa, ma non interviene nel caso in cui il compagno lasci sul tavolino del soggiorno il cellulare di servizio.
Girato in una Roma multietnica, e incerto fra la paura di sforare il già ridotto budget e la voglia di avventura, “Henry” è la coraggiosa ricerca di una nuova frontiera espressiva nel panorama italiano e un’occasione persa. Tra borse contenenti vestiario lanciate da Ponte Sant’Angelo, vesciche fragili, e monologhi/deposizioni fuori scena che dovrebbero dare un tocco di verismo a una vicenda che di per se’ indossa lo scialle dell’assurdo, la sceneggiatura butta giù briciole di qualunquismo che mettono a confronto la religione “libera” con quella “dogmatica”, l’eroina con la guerra.
C’è anche la pretesa di capire qualcosa sul mondo del cinema attuale avanzando dubbi sulla sua esistenza e imburrando i dialoghi con un Jean-Pierre Belmondo a individuare come “molto intelligente” chi è in grado di riconoscerne l’autentico nome. Ed è vero che il regista non giudica, ma nemmeno rientra nei termini di legge.
Intanto la mala si prende cura dei problemi scottanti rispondendo con un “vaffanculo” in viva voce. E poi ordina, sì, ma bucatini e maialino al forno.
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