Regia di Kenneth Branagh vedi scheda film
Il dio del tuono, trasportato di peso dalla mitologia norrena alle tavole Marvel, è un personaggio nato duplice, umano e divino, punito per arroganza ad incarnarsi in un medico zoppo. Lo sdoppiamento tipico dei supereroi, mascherati e non, diventa in Thor, come in Hulk, un raddoppiamento fisico, non solo il necessario trafugamento di un’identità per necessità di segretezza. L’adattamento cinematografico dei Marvel Studios riesce a eludere l’effetto straniante dell’impostazione originale semplicemente cancellandola. Le forme terrestri di Thor corrispondono a quelle celesti, private però dei poteri, legati al martello incantato e all’armatura.
Lo sdoppiamento si trasferisce, invece, a livello filmico con il doppio piano, astrale e terreno, il mondo leggendario di Asgard e il New Mexico, luogo per eccellenza di incontri extra-terrestri. Alieno delle forme umane, Thor vive sui due mondi, e sugli svariati universi comunicanti che il portale di Asgard mette in contatto, rimanendo immutabile di aspetto. Così il film si traduce nel Bildungsroman di un eroe consapevole, pronto al sacrificio e a dismettere l’orgoglio per trovare la responsabilità del coraggio.
Il film continua ad alternare il regno di Oz dalle venature shakespeariane care a Branagh, con lotta di potere tra fratelli rivali e guerre ancestrali, e il mondo quotidiano americano, architetture ambrate ardite e roulotte nel deserto, compiacendosi di una doppia dimensione assemblata dalla fantasia. Tra gli accenni tragici della famiglia di Odino e la quotidianità quasi burlesca della terra, Thor è una riuscita trasposizione che si avvantaggia di una sceneggiatura leggera ma precisa, con citazioni esplicite (o introduzioni di altri eroi da riunire nel prossimo The Avengers (Hawkeye, Ironman, Hulk e, tra poco, Capitan America) secondo la nuova logica continuativa dei film Marvel. Branagh vi aggiunge citazioni, più o meno chiare, al Bardo e a Stargate, alle leggende arturiane e alla fantascienza degli Anni Cinquanta, passando con noncuranza dalla magniloquenza asgardiana, ritratta con esubero di panoramiche fittizie e inquadrature simmetriche, a riprese dall’asse obliquo che fanno tanto fumetto, con lo stile appiattito della naturalezza spesso frontale delle scene terrestri.
La terza dimensione, visibile soprattutto con l’aggiunta di artefatti digitali, nulla aggiunge mentre molto perde nella rapidità del montaggio perché ancora (Avatar escluso) non affiancata da un ripensamento della sintassi cinematografica.
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