Regia di Kenneth Branagh vedi scheda film
Spetta a Kenneth Branagh, figlio di William Shakespeare, il compito di narrare, all'interno della mitologia Marvel, le avventure di Thor, figlio di Odino. Non so chi dei due abbia un padre più scomodo, se il regista irlandese o il dio del tuono. Il primo dedicò al Bardo numerosi film quali "Enrico V", "Molto rumore per nulla", "Nel bel mezzo di un gelido inverno" ed "Hamlet", oltre alla gioventù vissuta in un'era geologica in cui la sua pelle era scossa da un fremito d'indipendenza ormai assopito. Il biondo dio della tradizione nordica, che in realtà sarebbe rosso di pelo, quant'è vero che i vichinghi ribattezzarono le genti d'Irlanda come il "popolo di Thor", dichiarò, con sacrificio, la propria fedeltà al vecchio padre, in attesa di prenderne il posto sul trono di Asgard.
Kenneth Branagh crede, probabilmente, che Thor, interpretato dal pettoruto Chris Hemsworth, abbia da dimostrare il proprio valore al saggio genitore molto più di quanto debba fare egli stesso, se non altro per anzianità di curriculum ed omaggi elargiti a profusione in passato all'illustre mentore.
Odino, insomma, è ben più esigente e severo di Shakespeare. Per questo motivo il primo film dedicato a Thor gira intorno al tormentato rapporto padre/figlio, alla mancanza di esperienza del giovane principe, all'ambizione di brandire lo scettro del potere prima del tempp. Per rompere una lancia in favore del vecchio padre dell'universo, eccessivamente critico e altezzoso, va detto che il figlio ha molti muscoli ma poco cervello, tant'è vero che Thor, bambinetto irascibile, riesce a farsi infinocchiare, a più riprese, del fratello Loki, astuto e scaltro come una volpe, come da atavica tradizione norrena. Ma il Loki marvelliano è, probabilmente, più cattivo del suo giocoso e astuto corrispondente mitologico così come Thor sembra una versione edulcorata del tuono e della folgore. Finché le gesta dei fratelli si sviluppano su Asgard, e nella terra dei giganti di ghiaccio, il cervello supera la forza bruta. Odino punisce il figlio, guerrafondaio ed arrogante, spedendolo a Midgard mentre l'infido Loki architetta la propria successione.
Spedito sulla Terra il dio Thor diventa, a mala pena, un bel tenebroso, incapace di brandire il Mjolnir. Privato della forza del rango per Thor la disfatta sembra già scritta. Il dio, invece, insieme ad uno sparuto gruppo di scienziati, riesce a mettere in equilibrio la partita con l'ambizioso ed insicuro fratellastro. Sulla terra del resto l'intelligenza non è mai stata l'arma vincente. Sul nostro pianeta valgono, per così dire, altre regole, sin dalla notte dei tempi. I piani malvagi del principe cornuto vengono smascherati ed infine neutralizzati da muscoli e armi. Intanto il biondo figlio di Odino si riscopre vulnerabile e, di riflesso, meno infantile e straordinariamente maturo. Nella sequenza migliore del film, la più ricca di pathos, Odino si risveglia dal pisolo e rende al figliol prodigo, ormai uomo maturo e affidabile, il martello da fabbro. Il tuono ed il fulmine tornano a risuonare nei cieli terrestri.
Il ritorno del Mjolnir tra le mani del proprietario permettono a "Thor" di acciuffare la sufficienza. Il principe della folgore, alla fine, ottiene la benedizione paterna. Branagh consegna, invece, un compitino adatto ai tempi. Il padre Shakespeare è comunque presente nel linguaggio moderno dei cine-comics. C'è il rapporto tormentato tra re e principe così come la rivalità tra fratelli, il tutto in un contesto regale in cui il potere può causare la devastazione dei popoli o la loro protezione. La drammaticità e la nobiltà dei gesti, come la rinuncia all'amore fisico per la salvezza dei regni, piacerebbe al poeta. Tra Enrico V e Re Lear il drammaturgo può sentirsi soddisfatto. Nulla è nuovo sopra il regno di Asgard e nel ventre di Midgar.
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