Regia di Kenneth Branagh vedi scheda film
Il Thor di Branagh è un frastornante ibrido con troppe approssimazioni di sceneggiatura e dialoghi che alternano sconcertanti banalità a pompose enunciazioni di taglio quasi shakespeariano recitate male. A me appare dunque un film contraddittorio incapace di scegliere la giusta direzione e che finisce per essere né carne né pesce.
Ho affrontato la tragedia, la commedia, la letteratura gotica, il musical, l’opera lirica… perché non pensare allora alla fine anche al fumetto ed arrivarci proprio attraverso “Thor” che è un testo quasi shakespeariano ed è il fumetto che leggevo e adoravo da bambino? Sapevo che qualcosa di me e del mio modo di lavorare sarebbe stato sacrificato, ma davvero non potevo rinunciare a un’occasione così intrigante. E poi è stata un’esperienza veramente incredibile vivere due anni a Hollywood per affrontare una sfida come questa (e non ho assolutamente intenzione di fermarmi qui). Non parlo di possibili sequel ovviamente (non so nemmeno se me lo chiederebbero). E’ la prima volta che mi sono trovato a dirigere una pellicola commerciale di tale portata, e non riesco proprio a immaginare quali conseguenze potrà avere per il mio futuro. Chissà cosa accadrà? “Presumere è la madre di tutti i fallimenti”: così mi dissero quando girai il mio primo titolo. Io so per certo che per me è stata un’occasione piacevole che mi ha dato una uova visione delle cose, e questo è molto importante.
A essere sincero comunque, ad attirarmi in questo progetto è stato soprattutto l’interesse per la tragedia familiare che contiene. “Thor” è la storia di un esilio e di un ritorno, in fondo. Al centro c’è poi questo eroe arrogante che per arrivare alla consapevolezza di sé deve perdere tutto: la famiglia, gli amici, il suo regno. La sua sconsideratezza gli aliena il rispetto del padre e l’amore del fratello e lo conduce a fare penitenza sulla Terra e in forma umana. Ma nel corso di questa avventura piena di dolore, il ragazzo diventa un uomo capace di assumersi (e di sopportare) le responsabilità per sé e per gli altri. E’ dunque una specie di figliol prodigo che solo trovando se stesso può fare ritorno a casa.
Indubbiamente è una vicenda molto coinvolgente e mi è piaciuto esplorarla (è stata una fortuna per me che la Marvel abbia deciso di assumersi il rischio e di ingaggiare un regista fuori dal coro come sono io) proprio per tutti quei riferimenti alla classicità della tragedia elisabettiana.(…) Dietro all’azione, agli effetti speciali, allo spettacolo e al 3D, ho infatti voluto fortemente che rimanesse il personaggio e la sua storia.(…) L’ingerenza esterna comunque c’è stata e anche molto pressante, ma alla fine è risultata stimolante: sei su un set e hai a disposizione grandi interpreti, ottimi costumisti, una tempesta di ghiaccio e neve vera, cinque troupe e centinaia di persone che lavorano per te, devi necessariamente avere uno sguardo d‘insieme e qualche concessione devi pure farla (e magari è anche necessaria) per raggiungere un risultato equilibrato su più fronti (intendo dire pensando allo spettacolo, ma senza rinunciare a me stesso). Ho cercato comunque di fare affidamento su quello che raccomanda sempre Spielberg: se devi dirigere tanta gente, fai il tuo primo ciak come se dovessi riprendere un bicchier d’acqua e poi rifletti su cosa fare con gli altri cinquecento. Io ho provato a seguire il suo consiglio e mi sono reso conto che è davvero questa l’unica strada da seguire e che in fondo non era molto lontana da quella che anche io avevo giù percorso (del resto anche in Shakespeare le persone sono tante…e scusate se ci ritorno sopra, ma credo che ci siano davvero molti paralleli possibili, e non solo per approssimazione). Credo per esempio che Loki sia riconducibile a molti personaggi delle sue tragedie, Iago su tutti. Quello che condivide con quest’ultimo è infatti la motivazione, o meglio il non poterne dare una. Volevo infatti che esattamente come Iago, nemmeno Loki capisse perché compie certe azioni. Alla fine della tragedia shakespeariana, Otello chiede a Iago: “Perché mi hai imbrogliato?”. Lui si limita a ribattere: “E’così! Quello che sapete sapete, ciò che si è detto si è detto, non parlerò più” e chiude nel silenzio. Questo vale anche per i nostri due fratelli che possono amarsi ma ciò non esclude la possibilità che fra loro nascano alla fine forti rivalità anche per ragioni inconsce che non sono del tutto definite.
Mi interessava esplorare poi sempre attraverso Loki come si possa reagire scoprendo all’improvviso di non avere una famiglia, di essere diverso. Nell’epilogo Loki risponde a Thor: “Sono folle o forse ferito?”. Questa ambiguità e questa provocazione sono centrali nel suo personaggio, che è per me importante come Thor. (…) E poi in questa mia pellicola non ci sarà soltanto azione poiché io conto fortemente proprio sulla parola ed ho intenzione di utilizzarla al meglio. La letteratura ha il potere quasi magico di scatenare la fantasia (e recitare con il green screen non è poi per l’attore molto diverso da ciò che accade in un teatro, dove si stimola il pubblico a immaginare buona parte dell’approccio scenico). Nel prologo dell’”Enrico V” il coro declama: “Colmate col vostro pensiero le nostre lacune; di un uomo che vedete fatene mille e createvi un imponente esercito; se parliamo di cavalli, immaginate di vederli realmente stampare gli zoccoli sul terreno molle che ne riceve le impronte”. Sono parole che suggeriscono alla fantasia di spiccare il volo. Mi piace allora pensare al mio film in questi termini, come un invito allo spettatore a evadere dal quotidiano utilizzando proprio l’immaginario della fantasia. Ma torniamo al “parlato” che nel film è molto importate proprio per quel dialogare “alto” dei personaggi che ho privilegiato. Già il linguaggio impiegato nel fumetto sta a metà strada tra Shakespeare e la Bibbia: è formale e colto anche se ricco di humour. Per la pellicola ho cercato di mantenere il medesimo registro, ma stando ben attento nel contempo a restituire anche un senso di estrema naturalezza. Un po’ come ho sempre fatto adattando Shakespeare per lo schermo: rispettare la lingua rendendola però spontanea per l’attore, in qualche modo aggiornata nel senso. Il segreto in Shakespeare sono le parole, è la lingua che crea il personaggio, e questa è stata la mediazione che ho chiesto anche agli attori, con uno sforzo speciale di concentrazione proprio sulla parola. Non è stato semplice per gli interpreti – e per Chris Hemsworth soprattutto – piegare la propria performance a quel particolare lessico e a quella determinata dizione che io gli richiedevo. Una sfida vinta direi però guardando al risultato. D’altro canto Thor è un principe e non l’uomo della strada, non avrebbe certo potuto parlare il moderno americano e una mediazione lessicale era importante e necessaria. Per aiutare Chris a entrare nella parte gli ho fatto allora imparare a recitare l’”Enrico V” prima di arrivare a Thor. (Kenneth Branagh)
Non potevo esimermi dal dare così tanto spazio alle tronitruanti dichiarazioni programmatiche di intenti che il regista ha rilasciato riguardo alla sua ultima fatica per tentare di spiegare (giustificare?) la sua conversione al “cinefumetto” (come ormai viene definito da più parti questo filone) perché – devo confessarlo e farne ammenda – è stata proprio la curiosità che hanno suscitato in me a spingermi a visionare la pellicola in sala (senza il supporto degli occhialini però che mi fanno sempre venire un forte mal di testa) che non rientra certo fra quelle per le quali nutro particolari preferenze.
Probabilmente non sono allora la persona più indicata e attendibile per parlarne, visto che il film è invece parte integrante di quell’immenso universo dei supereroi a fumetti che la Marvel ha deciso di sfruttare “in proprio” sullo schermo, una materia in cui non sono troppo competente e che se proprio devo confrontarmici, preferisco farlo rimanendo fedele agli albi cartacei piuttosto che alle ipertrofiche “dilatazioni” cinematografiche. Non che pensassi comunque che la presenza di Branagh alla regia fosse da sola “sinonimo” di qualità, o che rappresentasse una stimolante novità, poiché ormai non sono insoliti questi ibridi autoriali con cui la Marvel cerca ogni tanto di “rifarsi il trucco”, magari per rinnegarne il risultato immediatamente dopo, e che qualche volta hanno anche dato esiti sorprendenti per “rinverdire” un poco il settore, e ripulirlo dalle incrostazioni della convenzione… ma dovete ammettere che era interessante verificare se l’approccio sbandierato da Branagh fosse poi stato rispettato per davvero… e soprattutto con quali esiti pratici, visto che le contaminazioni fra il “sacro” e il “profano” (mi perdonino i cultori del fumetto se mi esprimo in siffatti termini, che servono soltanto per rendere chiaro il paragone e non vogliono certo rappresentare una scala assoluta di valori) sono a mio avviso spesso produttive, se condotte da una mano “capace” e competente come avrebbe potuto essere appunto la sua.
Il problema maggiore rimane quindi a questo punto almeno per quel che mi riguarda, quello di parlare davvero di ciò che ne è venuto fuori, tutt’altro che disprezzabile magari, per lo meno sul versante dello “spettacolare”– e forse con gli occhialini mi sarebbe sembrato ancora meglio - ma esattamente nella norma o giù di lì, e che mantiene (o rispetta) ben poco però di quei propositi di così alto profilo esposti in grande pompamagna dal regista forse soltanto per giustificare una tentazione – tutt’altro che illegittima – a un proficuo rimpinguamento del suo portafoglio al quale cercava di dare almeno un senso.
Al di là delle mie scarse competenze in materia che potrebbero portarmi ad essere un pò prevenuto, credo infatti che ciascun spettatore sia in grado di verificare in tutta autonomia di giudizio che ci troviamo comunque e solo davanti a un più che consueto blockbuster hollywoodiano (certamente a un grande spettacolo di insieme) che definirei comunque di quelli “senza infamia e senza lode”, un qualcosa che resta in ogni caso semplicemente e unicamente un tassello magari anche importante ma usuale, di un progetto più ampio e ambizioso che è solo della Marvel in prima istanza, e della cui finalità complessiva devono essere sempre obbligatoriamente rispettati “canoni” e convenzioni al di la delle differenti aspirazioni di regia, al fine di poter poi offrire allo spettatore una certa continuità nei temi e nei modi della messa in scena e dell’approccio narrativo che va ben oltre i personaggi portati sullo schermo e il nome più o meno paludato scelto per stare dietro la macchina da presa.
Personalmente visto che ho frequentato troppo poco delle precedenti produzioni che la Marvel ha già trasferito sullo schermo, non sono per la verità in grado di stabilire con certezza se esiste davvero “uno stile Marvel” ormai consolidato, un vero e proprio “marchio di fabbrica”, ma immagino che una ipotesi di questo genere sia in ogni caso tutt’altro che peregrina, visto che è proprio lei a gestire direttamente tutta la macchina organizzativa e a pretendere (le ingerenze a cui accennava Branagh?) il rispetto assoluto (per quanto possibile) delle versioni cartacee dei sui personaggi, con pellicole per altro che fanno in genere un gran furore (almeno in termini di incassi complessivi) in un momento abbastanza favorevole che Rocco Moccagatta ha definito di grande innamoramento collettivo per il genere.
Io, non possedendo un adeguato bagaglio culturale sul “fumetto” in generale e quello Marvel nella fattispecie, mi astengo dallo sparare a cuor leggero giudizi e paragoni forse improponibili fra i due universi narrativi. Cercherò di limitarmi allora come ho già detto, a valutare il film per quel che poi effettivamente ho visto sullo schermo (o che mi è arrivato) e devo confermare in tutta onestà che di riferimenti oggettivi al Bardo, io ne ho trovati davvero pochi, o comunque tali da sembrare semmai solo “pallide” risonanze strutturali invero ben lontane da rappresentare la prova inoppugnabile della presenza dietro la macchina da presa di una mente “dotta” e specializzata in materia di tragedia elisabettiana, come quella di Branagh. Se proprio la vogliamo dire tutta, del regista è semmai più facile riconoscere una certa legnosità di movimento (che per altro mi era già sembrato di riscontrare nell’altrettanto ambiziosa rilettura “colta “ del Frankenstein di Mary Shelley di qualche decennio fa) e un altrettanto sotterraneo disagio (ma abbastanza palpabile) nel doversi barcamenare con disinvoltura con l’esuberanza davvero molto invasiva dei tanti effetti digitalizzati che stonano un tantino per esempio con il micidiale birignao di interpreti indubbiamente preparati e bravi (loro sì, abituati a recitare la “tragedia”!!) ma che qui, proprio per la stridente disuguaglianza di registri e di intenti con tutto il resto del cast, finiscono per apparire indigesti e gigioni (o forse solo eccessivamente “invasivi”) e fuori luogo, e a non giovare minimamente al risultato complessivo, tutt’altro!!! (vedi fra tutti l’ieratica staticità ingombrante dell’Odino di Anthony Hopkins, inutilmente dispersa e “annegata” fra troppe scenografie maestosamente “pacchiane”, sicuramente entusiasmanti per la vista, ma prive di “costrutto”). La sua mano semmai si avverte un po’ di più nelle scene di maggiore tensione “drammatica”, comunque non con sufficiente forza da trasformarsi in “stile”.
Sono allora abbastanza in sintonia con ciò che ha scritto al riguardo ancora Rocco Moccagatta, e cioè che l’impressione che si ricava dalla visione di questa pellicola e di tutto quello che è già venuto prima, sia proprio quella di una certa presunzione (della Marvel) che confida troppo nella forza e nell’originalità dei propri mondi variopinti e che per questo richiede poi all’atto pratico al regista di turno (sia esso un Leterrier o un più prestigioso nome come quello di Branagh, soprattutto una mera (“rassicurante” ) competenza esecutiva di facciata, ma con pochissimo margine d’azione personale e che difficilmente lascia spazio a chicchessia per poterci poi davvero travasare dentro anche una minima riconoscibilità più certa della propria poetica d’autore.
Peccato davvero perché se le premesse fossero state rispettate, con Thor si potevano davvero fare eccellenti “contaminazioni” (magari anche senza il bisogno di ricorrere necessariamente a Shakespeare), semplicemente utilizzando soltanto le tante variazioni stilistiche che a quanto mi risulta il personaggio ha subito nell’evoluzione del fumetto cartaceo, dalla originale versione ormai classica anni ’60 di Kirby/Lee, fino ad arrivare alla più recente “rilettura” smaliziata e decisamente pop, di Straczynsky e Coipel.
Il Thor di Branagh (ma forse sarebbe più appropriato darne la completa paternità alla Marvel a questo punto) non è invece a mio avviso né carne né pesce, e rimane un frastornante ibrido (lasciando riposare in ogni caso e per davvero Shakespeare che poi alla fine c’entra poco o niente). Ne deriva così soprattutto un impatto visivo accattivante di eccellente presa che si adagia però sul consueto apparato delle storie sponsorizzate dalla “Casa Madre” (pensate come sarebbe potuto risultare invece straordinario l’impatto se si fosse deciso di sfruttare fino in fondo i surreali paradossi di un dio vichingo che si ritrova giocoforza a vivere senza “poteri paranormali” e quindi contando soprattutto sulle proprie forze, dentro l’America oscura e un tantino stralunata dell’attualità contemporanea). Una ulteriore penalizzazione viene anche dalle troppe approssimazioni di una sceneggiatura che presenta imprecisioni e vere e proprie incongruenze ricorrendo a dialoghi a volte di una sconcertante banalità, altre invece anche troppo “pomposi” messi per atro in bocca ad attori di una “inespressività” catatonica come il biondo protagonista Chris Hemsworth (che si sarà pure esercitato sull’Enrico V ma non si vede proprio il risultato, checché ne dica Branagh), che ha solo un appropriato physique du rôle forgiato su pettorali magnificamente scolpiti in palestra, ma non certamente la stoffa per sostenere sulle sue spalle (anche troppo ampie) un ruolo così preponderante. Fra tutti gli altri “pretendenti” di un cast davvero troppo eterogeneo, a parte un decoroso parterre femminile (Natalie Portman e Kat Dennings) quello che ci fa la miglior figura è sempre Stellan Skarsgard, professionale come al solito (ma anche qui ovviamente, davvero niente di speciale).
Quindi un esito che a mio avviso non può essere valutato oltre la sufficienza, e una regia che lascia poche tracce di evidenza drammaturgica, tutta piegata com’è alle necessità tecniche della spettacolarità delle azioni da tenere sempre elevata e in primo piano.
Forse l’universo supereroistico Marvel è già in partenza molto vario e articolato e magari anche senza bisogno di ulteriori “orpelli”, funziona bene già di suo come una sorta di irresistibile miscellanea di ”immaginari” e di stili diversi mescolati insieme dentro un caleidoscopico melt point zeppo di contaminazioni un pò spericolate che assumono però il senso di una “serialità” che si travasa di pellicola in pellicola coinvolgendo e unificando per più di un verso tutti i “personaggi” raccontati: può darsi che questo basti per soddisfare per lo meno il gusto delle masse, ma credo che invece ci dovrebbe essere più coraggio di osare se si vuole avere anche l’ambizione di una “certa” eccellenza che la scelta di qualche nome celebrato sembrerebbe suggerire, visto che nel settore le cose più pregevoli – checché ne pensi la “Casa Madre” - si sono avute solo quando si è corso davvero questo rischio.
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