Regia di Francesco Barilli vedi scheda film
“Un pomeriggio di sole sul finire della seconda guerra mondiale” recita la didascalia iniziale. La giovane Rosa gestisce con la madre Marta, nelle vicinanze di un lago nell’Italia Centrale, una pensione. Rosa attende con fiducia il ritorno dalla guerra del padre a cui scrive appassionate lettere cariche d’affetto. La ragazzina accetta con fatica il fatto che la madre tenga nascosto il suo amante in una stanza della pensione e non riesce a stabilire un rapporto sereno con gli strani clienti dell’albergo, anche se è ben consapevole, come le dice la madre che “non possiamo permetterci di mandare via nessuno.” In particolare Rosa viene ripetutamente insidiata da Rodolfo, uomo viscido e volgare che convive con una donna molto più matura di lui. Rodolfo promette a Rosa un futuro radioso (“Non sei nata per stare in cucina. Ti farò fare bei viaggi, ti farò fare la signora!”) ma la ragazza respinge infastidita le sue oscene avances e preferisce frequentare il suo timido amico Guido, nipote del prete del paese. Dopo la morte della madre, misteriosamente precipitata dalle scale, per la ragazza inizia un vero e proprio calvario. Altro che pensione paura: il titolo più adatto avrebbe dovuto essere pensione tedio. Brusco passo falso per Francesco Barilli, dopo l’inquietante, enigmatico e riuscito “Il profumo della signora in nero” uno degli esemplari più fulgidi del thriller all’italiana. Non pochi i punti di contatto tra i due titoli. Una giovane protagonista che viene precipitata in un incubo terrificante e senza fine (tra l’altro, anche nel film d’esordio, la protagonista, da piccola, aveva l’amato padre lontano – era un marinaio – e viveva sola con la madre che se la spassava con un amante, episodio che poi scatenerà la sua follia). Un campionario di personaggi ambigui e torvi che le girano intorno. Un contesto sinistro, decadente, oscuro e polanskiano. Un’atmosfera disturbante, misteriosa e malsana. Una lunga prima parte di assillante ed impenetrabile attesa a preparare sviluppi traumatizzanti. In una sequenza (quella in cui gli inquilini della pensione, quasi con famelico furore, catturano la protagonista e la gettano in una vasca piena d’acqua tentando di annegarla) Barilli, a mio parere, si concede anche un’autocitazione dello sconvolgente finale del suo primo film di cui ritorna anche l’episodio dello stupro, là però meno violento e prolungato (a voler essere ancor più pignoli si può aggiungere che “Il profumo della signora in nero” inizia con l’inquadratura di una barchetta in una fontana, mentre qui c’è una barca vera nel lago con a bordo la protagonista che raggiunge la terraferma). Purtroppo “Pensione paura” manca di quel fascinoso e calibrato equilibrio narrativo ed “atmosferico” che aveva reso cult l’esordio di Barilli. Se da un lato la dolcezza indifesa, vulnerabile, ma anche seducente della protagonista (una splendente Leonora Fani, lo stesso anno Nené, nell’omonimo celebre film di Samperi) coinvolge e turba, qualche momento è azzeccato (gli scarafaggi sul letto, tutta la cupa e brutale sequenza in cui la protagonista porta i due cadaveri nei sotterranei dell’albergo) ed il talento visivo e registico di Barilli nel costruire suggestive ed inquietanti sequenze, grazie anche a valide scenografie e ad un indovinato ambiente naturale (il film è stato girato a Manziana, vicino al lago di Bracciano) trova ulteriore e piacevole conferma, dall’altro però troppi ed innegabili sono i difetti. I tempi sono così dilatati da sconfinare nella noia salvo poi un’accelerazione conclusiva poco convincente ed approssimativa. I personaggi sono appena abbozzati, banali o di maniera: la loro stranezza, squallore ed ambivalenza paiono fin troppo ricercati e costruiti (anche se sono quanto meno curiosi il sacerdote prestigiatore che non dà le uova alla giovane protagonista, nonostante una tavola super imbandita, non troppa velata critica ad una Chiesa egoista e chiusa in se stessa in un periodo di enorme difficoltà per tutti o il cameriere Alfredo, perennemente ubriaco). La tensione è a intermittenza con colpi di scena piatti ed inconsistenti. La sciagurata sceneggiatura, scritta dal regista con Barbara Alberti e Amedeo Pagani (questi ultimi due già in coppia, tra l’altro, per “Il portiere di notte” della Cavani e “Il maestro e Margherita” con Tognazzi), è confusa, raffazzonata ed ingolfata con implicazioni psicanalitiche, edipico-femministe di quart’ordine e svolte narrative superflue (i due killer che ad un certo punto arrivano alla locanda sono ridicoli, la vicenda dell’amante della madre di Rosa, costretto a vivere nascosto è ininfluente, dozzinale e per nulla interessante). La morbosità è artefatta e sonnolenta. L’ambientazione in una pensione diroccata, durante la seconda guerra mondiale, all’apparenza è funzionale e potente, in realtà è solo pretestuosa. Alcuni momenti di violenza (il barbaro stupro della protagonista) sono piazzati un po’ a casaccio per colpire basso e sconvolgere ma senza alcun vero senso logico. C’è poi una sequenza onirica che lascia di sasso per quanto è astrusa e inutile. Il finale, culminante in una cupa tragicità poco credibile ed enfatica, è sbrigativo, tirato via, quasi paradossale. Tutti elementi che denunciano come i molteplici problemi che lo stesso regista ha ammesso di avere avuto con la produzione abbiano influito in modo evidente sul risultato complessivo (che, per inciso, ha convinto assai poco lo stesso Barilli, il quale dopo questo film “nato più per caso che per volontà mia” - parole dello stesso regista - ha dovuto attendere 14 anni per girare un episodio del collettivo “La domenica specialmente”). Attori sprecati (Francisco Rabal alle prese, ripeto, con un ruolo nullo) o evanescenti (Luc Merenda che peraltro ha sempre considerato questo una delle sue parti migliori). Ottima fotografia di Gualtiero Manozzi, azzeccate musiche di Adolfo Weitzman. Sempre giusto e utile vedere la versione integrale rimessa in circolazione dopo anni in cui il film pareva introvabile e dunque invisibile (qui i tagli della versione televisiva sono parecchi e alcuni anche ingiustificati), ma in questo caso è sufficiente anche quella mutilata per capire che il film non è per niente riuscito. In un’epoca di rivalutazione indiscriminata di tutto quanto è cinema di genere italiano degli anni settanta (e anche la meritoria rivista “Nocturno” sotto questo profilo manca talvolta di obiettività) è giusto fare delle distinzioni: “Pensione paura” è assai mediocre. Per i fan de “Il profumo della signora in nero”, della sua inesorabile e realistica crudeltà, della sua angosciante e lucida follia una cocente e amarissima delusione.
Voto: 4
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