Regia di Christopher Smith vedi scheda film
Non vengano tratti in inganno i cultori italici di Guerre stellari: non si tratta di quella morte nera. Ma di una molto più reale. Per un film nerissimo che, forse, scontenterà certi “puristi” dell’horror ma che si rivela terribilmente inquietante.
Black Death è infatti opera di crudo realismo, che riesce brillantemente a superare – checché ne dicano taluni critici – le palesi limitazioni di budget producendo un quadro convincente di un’epoca annichilita dal più atterrante flagello della storia europea. La peste. E basterebbe quella.
Invece – come sa chiunque conosca le cronache dei tempi, peraltro in genere più scabrose del film – non c’è soltanto il morbo biologico in agguato, ma pure quello culturale, umano. Non è affatto semplice figurarsi l’abisso di desolazione umana di metà ‘300, l’assoluto predominio della morte, l’agghiacciante senso di trovarsi dinnanzi all’Apocalisse.
Un’età di completa disgregazione sociale entro la quale - nella pellicola - le ultime propaggini del potere costituito rimaste ritengono cosa urgentissima mandare emissari in lungo e in largo alla ricerca di fantomatici negromanti da torturare, in sintesi combattere il “paganesimo” sopra ogni altra questione “volgarmente” terrena.
Mentre la stessa popolazione – piegata da un male senza soluzione – incorre in un abbruttimento tremendo, e non avendo risposte o "ragioni" a cui additare l'orrore finisce per sprofondare nella bieca superstizione (cristiana o altro poco importa), nella violenza cieca e per rivoltarsi contro se stessa, o meglio contro le parti di essa più facilmente esecrabili grazie a secoli di indottrinamento (anche la sequenza della “strega” non è da considerarsi “anacronistica”, non soltanto perché i primi processi risalgono al 1200, ma soprattutto perché la canalizzazione dell’odio generato dal malessere verso capri espiatori ricorrenti – come la donna “equivoca” o l’ebreo “succhia sangue” – ha naturalmente storia ben più lunga di quella dell’Inquisizione in sé e per sé).
Va, nel corso della visione, a delinearsi il profilo di un’era di inimmaginabile sofferenza. Un mondo alla follia, popolato da fantasmi, vivi o morti. Una crudele danse macabre alla fine dei tempi. Su pile di corpi ammassati. Un affresco allucinante cui la sorpresa finale conferisce ancor più vigore e pregnanza. In misura maggiore di qualunque vacua scempiaggine tipica degli horror tutti jump scares.
Chapeau, dunque, al regista che è intervenuto in prima persona a modificare la parte finale che, nella sceneggiatura originale, a quanto pare costituiva la solita “apoteosi” prevedibile lontano un miglio. E non per niente, così com’è stato fortunatamente realizzato, nel render ben presente la sua riflessione circa il sempre vivo umano arrabattarsi nelle strettoie dell’oscurantismo, il film insinua nello spettatore un sotterraneo ma persistente malessere, un'inquietudine strisciante, come soltanto le migliori pellicole sanno fare.
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