Regia di Srdan Spasojevic vedi scheda film
«I monaci di Bunuski Cifluk durante l'estate mettono sette caproni adulti in una stalla: ce li lasciano per un mese, finché le loro palle diventano come meloni. Quando sono troppo eccitati iniziano a scoparsi a vicenda: i monaci gli prendono lo sperma essiccato misto al sangue dalle palle e lo mescolano con il latte, così da ottenere la pasta per il pane migliore che ci sia. Tu sei un caprone, Milos, io sono il tuo monaco».
Milos è stato un fuoriclasse del cinema hard, in grado di mantenere il proprio pene eretto a comando, possedere le donne con furia ed umiliarle senza mai sprecare nemmeno un ciak. Ora, quarantenne stanco, s'è ritirato a vita familiare con la moglie Marija, donna bellissima ma estranea alle luci rosse che si guadagna da vivere come traduttrice, ed il figlio Petar, che all'età di sei anni ha già avuto modo di apprezzare una sua performance incappando per pura curiosità nel dvd di Milosh the filthy stud (Milos lo stallone immondo), solitamente conservato in un armadio accanto ad altre perle della sua intensa carriera come The silence of the ass, Acockalipse now o Penis from heaven, ma lasciato improvvidamente nel lettore dopo l'ultimo ripasso.
Inconvenienti del mestiere (che fu) a parte, il ritiro dalle scene porta a Milos come effetto collaterale l'assottigliarsi inevitabile del conto in banca, e a fagiolo sembra così capitare la chiamata dell'amica Lejla, collega ancora in attività che per amore dell'arte alterna gli uomini ai cavalli, la quale lo convoca per proporgli di tornare in ballo per un ultimo lavoro, il più importante: una produzione internazionale di altissimo livello con un regista di sua fiducia, tale Vukmir, che, avuto da lui il benestare, di lì a poco lo contatta per poi riceverlo e riverirlo in un'enorme villa offrendogli una cifra da capogiro ma lasciandolo volutamente all'oscuro sulla sceneggiatura, invitandolo piuttosto a fare ciò che meglio gli riesce, ovvero scopare allo sfinimento.
Preoccupato da questo totale riserbo ma allettato da una paga che gli consentirebbe di oziare per il resto della vita, Milos si consulta con Marija, ne incassa il placet, e corre a firmare il contratto. Quando però, già dopo il primo giorno di riprese, s'accorge che l'atmosfera sul set - un orfanotrofio - è quantomeno ambigua, decide di reperire informazioni sul passato di Vukmir e contatta a tal scopo il proprio fratello Marko, un poliziotto single e puttaniere attratto da sua moglie ed invidioso delle sue capacità amatorie oltre che della serenità del suo ménage familiare. Rassicurato dallo stesso, torna subito a girare, finendo tuttavia rapidamente risucchiato in un vortice di perversione dal quale districarsi è pressoché impossibile.
Girato e prodotto in patria nel 2009 dall'esordiente Srdjan Spasojevic (e da lui stesso scritto con la collaborazione di Aleksandar Radivojevic), A Serbian Film è stato presentato nel 2010 in numerosi festival in giro per il mondo (dal SXSW di Austin fino a Cannes, passando per il Fantasia International Film Festival di Montreal che gli ha riconosciuto una menzione speciale come miglior opera prima), accompagnato da polemiche censure e querelle giudiziarie dovute ai contenuti sessualmente espliciti ed estremi e da pittoreschi resoconti su gente (distributori compresi) che fuggiva sconvolta durante le proiezioni, cui facevano da contraltare le dichiarazioni dell'autore, che ne proponeva una lettura metaforica presentandolo come «un diario delle molestie perpetrate dal governo serbo» al proprio popolo.
In quanto a capacità registiche Spasojevic non è l'ultimo arrivato, sa il fatto suo e si vede: la messinscena, coadiuvata dalla fotografia in digitale votata al più crudo realismo di Nemanja Jovanov e dagli effetti speciali impeccabili di Miroslav Lakobrija, è di discreto livello, con una prima parte più teorica tesa a preparare il terreno per una seconda delirante, articolata in una cinematograficamente incalzante sequela di salti temporali; a fronte di questo v'è però una storia sviluppata in maniera francamente grossolana, che sembra porsi come obiettivo primario quello di stupire a tutti i costi approdando lì dove nessuno era giunto prima, ma per farlo tracima in un 'sopra le righe' sistem(at)ico che sarebbe anche accettabile se solo apparisse sempre necessario e adeguatamente giustificato.
Il regista accenna a un percorso a suo modo coerente che dal sesso come strumento di dominio e morte vorrebbe arrivare al disfacimento dell'istituto familiare, ma si fa prendere la mano e ben presto deraglia: come il governo, stando alle sue stesse parole, «ipnotizza i propri cittadini obbligandoli a fare ciò che non vogliono», così lui lascia al suo omologo Vukmir la libertà di imbottire di afrodisiaco per tori il protagonista del suo porno d'artista, mostrandolo spettatore vittima e carnefice suo malgrado di ogni tipo di violenza e tortura; Spasojevic si serve la metafora su un piatto d'argento, ma nel realizzarla perde di vista il senso della misura anteponendo il disgusto compiaciuto al gusto del racconto, virando il disturbante prima in grottesco e poi in ridicolo, e accompagnando il tutto con una colonna sonora (di Sky Wikluh) chiassosa e alla lunga invadente, che vorrebbe avvincere ma, alla fin fine, risulta più che altro stucchevole ed enfatica.
Come il film stesso, per l'appunto.
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