Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film
Il film che più assomiglia al cinema, non è cinema.
Potrei chiudere qui, con un aforisma, che sarebbe di gran lunga il commento migliore, lasciando ad esso il compito di smontare interi edifici di luoghi comuni, e lasciare finalmente un po’ d’ombra in mezzo a tutti questi fari di spettacoli e trailer, narrazioni animate, affabulazzi ipertestuali e abracadabra di frizzi lazzi dollari e schiamazzi.
Anzi, la mia’’‘opinione’’’ si consideri finita qui.
Il resto è in più, se lo legga solo chi ha orecchio.
Lo scrivo perché poi mi si accuserebbe nuovamente di complicare ancor più il complicato, di non aiutare a chiarire queste benedette oscurità delle arti o presunte. Di non argomentare, finendo pericolosamente nella folta schiera degli homo-opinio starnutens di primitiva paratassi.
Anche se sarebbe ora di finirla, di essere imboccati, e visto che siamo in territorio western, diciamo che sarebbe salutare diventare dei searchers (per ciò che ‘ama nascondersi’).
Non è un brutto film l’ultimo dei fratelli Coen, e in modo speculare, non ha nulla di grande, nulla che lo consegni alla memoria, se non dieci, luccicose nomination di burro per la serata di codesto, fantomatico Oscar. Ecco prospettarsi quello che a volte è il peggiore degli esiti: la medietà, la scialba virtù dell’ignavo, aggravata dal fatto di essere di caratura mainstream, di sistema, e istituzionale made in West Coast. Il brutto a confronto, è spesso più incisivo, spiazzante, meno banale, rovesciatore, più umano. Ma qui siamo dalle parti del ‘mestiere’ consumato, e del cinema predigerito che la fa da padrona. Dove tutto è al suo posto, talmente tanto che nessen elemento destabilizzatore può farsi carico della novità, dell’inatteso, dell’intempestivo. Nulla che possa conferire originalità , freschezza, vita propria. Nemmeno quegli spunti ironici e grotteschi, i quali, come si dirà, appaiono indirizzati e di routine. D’altro canto, il film non prende mai il volo, non ha guizzi né per il cuore né per i nervi, né per la testa. Narra. E basta. In tutto il racconto di questo film, nulla accade.Un esempio per tutti: l’anonimo finale, in cui Mattie Ross-Mary Poppins cerca dopo un quarto di secolo (ma sembrano trascorsi cinquant’anni) il vecchio Rooster. Non lo trova, è morto tre giorni prima. “Il tempo sfugge” e lei se ne va. Punto. Grazie
A dire il vero, non tutto è perfetto. E le lungaggini di verbosi dialoghi più che rallentare l’azione, svuotano le immagini, le quali rimangono aggrappate al mestiere dell’attore, a una resa dello spazio neutra, a volte offuscata da ripetute sfocature, senza che quelle stesse immagini si facciano, oltretutto, sul piano della sceneggiatura non meno che della regia, nodi di tensioni, dinamiche drammatiche, centri dialettici e conflittuali di forze emotive, azioni e gesti, e di senso. Se l’immagine di un ceto tipo di cinema ‘classico’, che solo a volte si permea di una forza simbolica, manca anche di quella ricchezza drammatica che fa la grandezza di opere da Sentieri Selvaggi a Balla Coi Lupi (per rimanere in territori Western), cosa rimane? Credo ben poco, a meno che non si considerino le ‘bravure’ tecniche e istrioniche il massimo per un film.
Tutta la prima parte è difatti un esempio di ‘cinema parlato’ della più grande coppia dell’affabulazione cinematografica. Preludio per la storia made in Coen, il loro tipico ‘racconto’ di succosa grana cinematografica, l’ennesima sagra della sceneggiatura di quelle che ‘ancora si scrivono a Hollywood’. Qualcuno potrebbe dire: ma se è un 'cinema parlato', come fa ad “assomigliare troppo al cinema” (che dovrebbe essere visivo)? La domanda fa arrossire…. E vi pare che il cinema sia visivo??
Tra ridondanze accademiche spiccano proprio loro, le componenti da 'fruire', le eccellenze tecniche stile “ottima regia, grande colonna sonora, interpretazioni perfette, e superba fotografia” a redigere la carta d’identità del ‘grande cinema’ secondo lo spettatore del nuovo secolo e senescente. Dimenticando che l’unica cosa necessaria, in tanto lusso a tratti estetizzante, latita tristemente, e che dei vari elementi dell’apparato è il collante, la sostanza. Un’ispirazione vera, quel quid estetico che genera e plasma qualsiasi autentico atto di rappresentazione interiore che si faccia universale. L’unicità di un’idea e l’agire formale che ne sia fisiologica espressione. Non ho visto un solo gesto artistico in un’ora e cinquanta minuti di confezione. Per cui la ‘grande regia’ è un lavoro di gestione ordinaria e ben accurata (non straordinaria), la ‘grande colonna sonora’ accompagna esornativa azioni e personaggi a braccetto sul notorio confine dell’enfasi epico-drammatica, le interpretazioni perfette sono tipicamente caratteristiche, la superba fotografia è la brava rappresentante della patinata e suggestiva abitudine visiva nel panorama mediatico attuale. Ma oggi non ci vuol molto a scambiare la maniera per poesia, e al di là di quelli che saranno gli incassi, più o meno grassi, ecco che anche Il Grinta si becca la sua gloria cinefila.
I film dei Coen, artigiani aulici, maestri calligrafici di corte e industria (ora più di prima), sono a media frequenza, e i campioni del cinema cerchiobottista, che acchiappa il critico quotidiano e l’assuefatto di playstation, la signora media e il membro dell’Accademy. In cui l’intelligenza corre dietro all’utilità. Nulla di male, ma se si perde la differenza tra i cinema e il cinema, ogni superlativo è fuori luogo. Troppo poco dunque, per parlare di un carisma estetico, etico, umano, dunque rivoluzionario, alla stregua di ‘universali’ predecessori come Hitchcock e Ford. E pensare che solo qualche anno fa, Non è un paese per vecchi era stato sotto alcuni aspetti sorprendente, davvero interessante.
True Grint, per questi e altri motivi, non ha credibilità, anche (soprattutto) quando si parla di contenuti, non solo di forma. Con un certo gusto ‘lirico’-patetico, o con la volontà del tocco personale e riconoscibile, si propinano fugaci inserti di fiocchi di neve natalizi e pastellati crepuscolismi sulle lande dell’incanto: perché i Coen sono così, già dal cappello di Crocevia della morte, scendendo fino ad oggi, hanno le loro inserzioni liriche, appunto, le loro sopensioni a volte patinate, a volte indovinate, che nel caso di questo film definirei ‘spazi di bontà’, tra zuccherati accordi di pianoforte e sospiri impliciti, con un senso, se mi è concessa un’uscita in tutto e per tutto pop, vagamente stile queen-mulino bianco. Dove la crudeltà del mondo si stempera nello sguardo languido del duo-istanza narrante. Ma è tutto gratuito, privo di una solida giustificazione. Ecco cosa si intende quando si dice: “troppo cinematografico”. E’ come dire: letterario. Arte per l’arte, come piace a voi, a noi, a se stessa. Ci sono casi in cui la gratuità è il senso stesso, ma rivendicarlo qui significa equivocare.
La violenza quasi iperrealistica (l’uomo che colpito, cade da cavallo e va a impattare a duecentoventi su un comodo guanciale di roccia), e le note dolenti della pochezza della vita (colte ad es. in alcuni fuggevoli movimenti di macchina a lasciarsi alle spalle cadaveri) si sciolgono come miele al latte tra sorrisini di battutine e gags, (l’ironia, da potentissimo tropo diviene coi Coen di oggi una decorazione d’etichetta, una marca autorale che è già marchio di fabbrica), e le già dette, calibratissime note dolcificanti, ripercorrendo con superficialità le usurate e ritrite coordinate di una geografia storico culturale americana in disfacimento, ma con quella ‘leggerezza’ appunto, che è sempre la stessa, immutata, come i condimenti e le spezie che insaporiscono il solito piatto quotidiano. Stanca, priva com’è di brillantezza, acume, profondità, dolore, e nella sua piattezza, messa lì per far sorridere tra spunti grotteschi insipidi e impennate narrative. E così le citazioni, e l’attualità romantico-panamericanista (seguo film tv), la bestialità bastarda di territori persi e aridi del west: tutto si fa fumo non nel gioco, ma nei soliti giochetti. Un distinto esercizio cinefilo, letterario, déjà vu del tedio prossimo a tediarsi. Altro che grinta. Frittelle, pizze di paracinegrafia.
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