Regia di Jeff Malmberg vedi scheda film
Marwencol è un luogo immaginario. È il teatro di una battaglia che potrebbe anche essere realmente avvenuta, nell’ultimo conflitto mondiale, quando, nelle campagne del Belgio, le truppe alleate combattevano contro quelle tedesche. Per Mark Hogancamp, però, quella località inesistente rappresenta l’unica ragione di vivere. Il suo territorio occupa il perimetro del suo giardino, ed i suoi abitanti sono bambole della taglia di una Barbie. Soldati prestanti e donne avvenenti e coraggiose sono figurine di plastica, vestite con le divise ed i costumi dell’epoca, ed immerse in un’ambientazione bellica ricostruita con incredibile precisione. Mark è uno sceneggiatore nato: ai suoi pupazzi riesce a far assumere pose realistiche, che simulano l’azione e il dramma. I loro volti immobili ed inespressivi riescono, miracolosamente, ad interpretare la paura, il dolore, il tormento: un effetto che Mark produce in loco, manipolando i corpi, flessibili ed articolati, dei suoi personaggi, e che poi viene perfezionato dall’intervento della macchina fotografica. Nasce così un’illusione di vita che sorprende e commuove. L’arte, per Mark, è una terapia. È il ritorno ad un’esistenza normale dopo un terribile trauma psicofisico: un’aggressione compiuta su di lui, per futili motivi, da cinque adolescenti che, in una sera di aprile del 2000, nei pressi di un bar di Kingston, nello stato di New York, lo hanno massacrato di calci e pugni, riducendolo in coma, e causandogli un danno cerebrale permanente. Fino a quel momento, Mark era stato un abile disegnatore. Dopo quella violenza, le sue mani sono diventate malferme, tanto da non poter più impugnare una matita. Le sue fantasie hanno allora scelto un altro modo di materializzarsi, in mezzo a stradine percorse da jeep militari radiocomandate, casette di cartone e manichini in miniatura. Mark ritrae il contenuto dei suoi sogni, che prefigurano un futuro d’amore o rievocano un passato da dimenticare. Il suo tempo, brutalmente troncato da una micidiale scarica di botte, riesce così a riacquistare la giusta estensione, che spazia dai ricordi delle esperienze vissute ai progetti per l’avvenire. L’artista, con un atto di creatività letteraria, si riprende la dimensione della memoria, e la traduce in una concretezza che si può vedere e toccare. Questo documentario asseconda la prospettiva di Mark, che attraverso quel minimondo realizzato con gli strumenti del bricolage, vuole raccontare sé e la propria storia. I protagonisti, impersonati da piccole copie di famosi attori del cinema, sono alter ego di Mark e dei suoi conoscenti: la madre, il suo migliore amico, i colleghi di lavoro, il suo avvocato, la vicina di casa di cui si era invaghito. In essi riproduce uno scenario esistenziale che si ripresenta di nuovo completo, ricco di dettagli e di avvenimenti, di rapporti umani, di gesti, di emozioni, di contatto fisico. L’obiettivo ci invita a guardare a quella creazione con gli stessi occhi del suo autore. Così, anche per noi, essa inizia a muoversi, a parlare, ad agire, diventando un film nel film: una favola in cui la controfigura di Mark è un giovane ufficiale americano che viene catturato dai nemici e sottoposto a tortura, ma poi è salvato dalla donna che di lì a poco sposerà. Il regista Jeff Malmberg ci porta dentro un paese dei balocchi infestato dai mali dell’umanità, dal quale gli incubi degli adulti hanno scacciato i sogni dei bambini. Mark applica una passione infantile ad un gioco che riproduce un immane terrore, e al tempo stesso lo esorcizza con la magia della finzione. Dalla sua necessità di riconciliarsi con un mondo cinico e crudele scaturisce una straordinaria, originalissima forma d’arte, totalmente libera, e magnificente in un senso a cui non siamo abituati.
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