Regia di Ricky Tognazzi vedi scheda film
Un incipit promettente ed ispirato, però montato su un’opera che si perde nella nebbia dell’indecisione: sul genere a cui riferirsi, sul tono da dare alla recitazione, sul significato da attribuire alla storia. E che, forse per questo, si lascia prendere dall’affanno, impegnandosi in una disperata ricerca dell’effetto, purtroppo limitata al campo dei soliti espedienti televisivi. La parte iniziale ci incanta con l’idea del padre straniero di un bimbo disabile che diventa, in modo semplice e originale, il testimone dell’universalità del dolore e dell’amore. Ma la voglia di guardare questo film cessa di colpo nel momento in cui, in maniera azzardata ed improbabile, il racconto imbocca la strada dell’avventura a sfondo affaristico/spionistico, con un proliferare di autisti privati, guardie del corpo ed automobili dei servizi segreti. La sostanza nobile della storia, ossia quella lirica riflessione sulla diversità come particolare emanazione divina, si ritrova improvvisamente sommersa da un thriller impastoiato dai problemi familiari, il cui protagonista è il classico cliché dell’uomo comune alle prese con guai tanto più grandi di lui. Un ruolo che Alessandro Gassman affronta con evidente e comprensibile disagio, mentre cerca di mitigare la caricaturale goffaggine del personaggio facendola sfumare nella sua autoironia di attore. Un’impresa compromessa in partenza, visto che la regia sembra puntare tutto su una plateale condiscendenza agli stereotipi della letteratura popolare: quelle fantasiose semplificazioni in cui la cronaca incontra la favola, così che, ad esempio, il mondo arabo appare come un gigantesco suk, che è in parte il fantastico regno delle mille e una notte, in parte un covo di spietati terroristi. Il padre e lo straniero tradisce le sue origini letterarie (l’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo), perché sostituisce al racconto, con la sua impostazione e la sua atmosfera, un disordinato contenitore di suggestioni spicciole e frammentarie: piccoli clou disseminati a caso, che scoppiettano come bollicine, e non si curano minimamente di dover appartenere ad un senso complessivo.
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