Regia di Sylvain Chomet vedi scheda film
Come in “Appuntamento a Belleville” Chomet tratteggia l’Odissea picaresca di stralunati avventurieri senza risorse per sottrarsi a una civiltà meccanizzata, persino nella musica, che restringe spirito d’iniziativa, fantasia e poesia negli angusti e dimenticati palcoscenici di periferia: “L’illusionista” è in realtà una stampa animata da patetici fantasmi, il mago prestigiatore e la sguattera sognatrice, dolenti vestigia di un passato lontano, ombre silenziose su fotogrammi di vecchie pellicole mute che nessuna sala proietta più, cristallizzate nel momento dell’ agonia, quando cioè l’avanzare dei tempi le condannava alla morte per anacronismo. Recuperare una vecchia sceneggiatura di Jacques Tati, il geniale comico padre di Monsieur Hulot, rifarne risorgere corpo e anima in una figura animata, immergerlo in una situazione alle “Luci della città”, fargli scendere nell’Edimburgo degli anni 50’ gli abissi della miseria significa credere o illudersi che i messaggi in bottiglia gettati dai naufraghi nell’oceano prima o poi arrivino a riva e qualcuno li legga. Non si tratta pertanto del consueto omaggio ai grandi classici fine a sé stesso né di esprimere tout court il rimpianto per ciò che è andato definitivamente perduto: tutto il lungometraggio del resto è dominato da una malinconica rassegnazione all’inevitabile e dalla consapevolezza che spente le luci rimangono, abbandonati alle correnti e destinati all’oblio, solamente esili frammenti di un mosaico da ricostruire affidati all’umile pazienza dell’artigiano.
“L’illusionista” non è pertanto un artificioso esercizio di riscrittura, in quanto a renderne emozionante ogni momento sono la palpabile e struggente empatia fra Chomet e le sue creature, mai minacciate dall’ironico distacco dei contemporanei Maestri del postmoderno.
Non sono certo scoperte l’emarginazione degli artisti e la prevalenza di mode stravaganti e omologanti sull’originalità dei talenti, eppure lo spettatore si commuove ancora per le traversie del prestigiatore e dell’ ingenua ragazza che lo ha seguito in una squallida stanza d’albergo, persuasa dalle doti di lui di far comparire dal nulla scarpette rosse e cappottini eleganti: il loro è un romanzo di formazione speculare che porterà entrambi a una avvilente capitolazione alla crudeltà del “vero”.
Tuttavia nei balbetti confusi del gramelot sbalza una frase scritta in grande su un foglio di carta“I maghi non esistono” che tradotta forse significa: i maghi non possono morire e le loro strade si incrociano sempre al di là e al di qua dello schermo. “http://spettatore.ilcannocchiale.it
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta