Regia di John Landis vedi scheda film
Oggi li chiamerebbero serial killer. Ma i procacciatori di cadaveri Brendan Burke e William Hare erano solo due cialtroni senza arte né parte, professionisti dell’imbroglio, e diventati assassini per puro caso. Sotto l’evidente influenza dell’omonimo film diretto nel 1972 da Vernon Sewell, che mescolava humour inglese e una buona dose di allegra scurrilità, John Landis racconta la vera storia dei due criminali, attivi a Edimburgo nel 1828, affidando allo spettatore il compito di immaginare cosa, in quella grottesca vicenda, sia cronaca documentata e cosa, invece, sia stato liberamente inventato solo per conferire al racconto l’aroma speziato dello spettacolo da baraccone. E intanto lascia che il romanzo sociale alla Charles Dickens invada la scena con gusto polemico, ma bonariamente mitigato da un’arguta curiosità per un’epoca in cui la modernità stava faticosamente nascendo da un mondo ancora intriso di selvatica primitività. Il nuovo corso della medicina, basato sulla dissezione dei corpi, assume il tipico carattere della rivoluzione scientifica, che oppone alla tradizione una sfida condita di mostruosità ed irriverenza, e non priva della goffaggine del principiante e dell’imbarazzo del trasgressore: gli stessi tratti che riscontriamo nelle personalità dei due protagonisti, che si burlano cinicamente del mondo, ma percorrendo vie traverse e tortuose, un po’ per paura, un po’ per desolante imperizia. Violando, per pura venalità, la barriera che separa la vita e la morte, Burke e Hare diventano, in parte, gli eroi della dissacrazione degli arcaici tabù, in parte i pionieri dell’era industriale, anticipando la sua nuova forma di meccanica e materiale disumanità. La piazza del mercato, in cui si svolgono compravendite, si offrono servizi e si compiono le esecuzioni capitali, è il luogo-simbolo del mondo emergente, in cui la libertà è la fedele compagna della competizione, dello sfruttamento, di un caos dimentico dei valori e dei diritti fondamentali. Nella cornice del film, quell’ambiente crudelmente vivace fa da sfondo alla figura del boia che, tra un’impiccagione e l’altra, fa da narratore, inserendo la vicenda nel contesto storico dell’epoca: una scelta pittoresca e provocatoria, che ci ricorda come il progresso affondi le radici nell’oscurantismo, e riesca ad avanzare solo passando attraverso una tragica successione di errori e sacrifici.
Burke & Hare ci parla con una voce antica, che sa di esibizione claunesca, caricature da giornali illustrati e battutacce da varietà in costume: è come un inatteso odore di muffa che ci coglie di sorpresa nell’asettico universo del cinema contemporaneo, patinato e digitale, sobrio ed intimistico, scarno e documentaristico. L’aria della cantina è una ventata che, nell’attuale indigestione di realismo intellettuale e design artificioso, risveglia in modo naturale i sensi, scuotendo lo spirito con la riscoperta del vecchio, sano appetito di guardare il mondo per ridere delle sue futili sconcezze e delle sue buffe incongruità.
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