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Ad ogni costo

Regia di Davide Alfonsi, Denis Malagnino vedi scheda film

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La recensione su Ad ogni costo

di (spopola) 1726792
8 stelle

Nonostante che sia stato presentato con successo al recente Festival di Roma nella sezione “L’altro cinema Extra”, di Ad ogni costo non si conosce  ad oggi (almeno a me niente risulta in proposto) alcuna data certa in relazione a una sua possibile distribuzione in sala, il che la dice lunga sulla situazione di estremo disagio che attraversa il cinema italiano (e non solo) per chi non si assoggetta alla uniformità produttiva del qualunquismo che va per la maggiore. Permettetemi allora di fare in apertura e prima di ogni altra cosa, un augurio e un incoraggiamento alla produzione indipendente che ha realizzato il film  e al distributore (le Officine Ubu) che lo ha preso in carico, nella speranza remota che queste mie parole riescano per lo meno a muovere un poco le acque stagnati e  dare (immodesto!!!) un minimo di “visibilità” per lo meno conoscitiva, a una pellicola di straordinaria presa e di meritorio valore anche sociologico come questa.

Si dice infatti  spesso che il cinema italiano non ha idee né coraggio, ma credo davvero che di fronte ad opere di spessore e sostanza come Ad ogni costo (e non solo ovviamente) ci dovremmo ricredere e vergognare per la nostra presunzione “giudicante” che esprime sentenze inappellabili senza conoscere esattamente come stanno veramente le cose.  E’ semmai il sistema su cui si regge la nostra industria cinematografica che è malato, ammorbato come è da un nefasto duopolio al quale si deve “necessariamente” sottostare anche nelle scelte e nelle soluzione, perché questa è ormai è l’unica strada percorribile per ottenere adeguati finanziamenti e una se non proprio ottimale (non sempre questo accade anche per  titoli più blasonati, ma ritenuti  ugualmente “difficili”) per lo meno sufficiente distribuzione in sala (e un possibile futuro sfruttamento commerciale fra DVD e passaggi televisivi). La politica governativa poi fra tagli e leggi “incredibilmente assurde”, non aiuta minimamente il settore, anzi fa di tutto per distruggere le intelligenze creative soprattutto quando sono un po’ troppo fuori dagli schemi (gli fa evidentemente “gioco” che la gente smetta di pensare), una condizione  fortemente aggravata anche dal progressivo disinteresse del pubblico che sembra ormai scansare come la peste le rare programmazioni “di qualità” qualche volta rese disponibili dalle marginalità delle proposte nei momenti di “stanca” della stagione e sempre più relegate – quando va bene -  agli spazi collaterali dei festival di settore. 

Diciamo allora più propriamente che idee e coraggio ce ne sarebbero a iosa (noi riusciamo a intravedere qualche volta soltanto la punta dell’iceberg), ma anche chi possiede queste ormai rare qualità , spesso non riesce a  esprimerle compiutamente e anche quando arriva a farlo, poi gli viene negata la possibilità di “divulgare” correttamente il risultato delle proprie fatiche (il che è ancor più grave e preoccupante) non solo verso il pubblico che dovrebbe essere il destinatario finale in mancanza del quale niente sembra poi avere davvero senso, ma anche semplicemente per sottoporle al giudizio critico degli addetti ai lavori che, se positivo, potrebbe dare una mano e sovente non riescono a farlo con abbastanza vigore anche perché nessuno li ascolta davvero più (parlo della critica seria ovviamente, non quella prezzolata che inneggia persino agli orridi cinepanettoni).

 

Il film, che racconta un vero e proprio conflitto, quello che esplode all’interno di un disastrato nucleo familiare sullo sfondo di una degradata e violenta periferia urbana (fra Roma e Guidonia tanto per intenderci) è girato come se si trattasse di un vero e proprio reportage di guerra: macchina a mano in continuo movimento, simile a quella utilizzata da Garrone per Gomorra,  pedinamento ravvicinato dei personaggi che vengono tampinati così implacabilmente da creare a tratti un asfissiante clima un po’ claustrofobico per l’impatto di verità che ne deriva, capace quasi di farci percepire l’odore degli androni malandati e dell’erba sporca, fra scarti improvvisi della cinepresa e sussulti oscillanti sempre a qualche passo dai corpi e dai volti dei protagonisti dei quali ci sembra a volte persino di avvertire l’olezzo nauseante del sudore, e un rapporto così diretto, profondo e penetrante con la realtà martoriata messa in immagini, che la fotografia priva di fronzoli ornativi di Davide Alfonsi (uno dei due registi) rende in tutta la sua drammatica crudeltà, aumentando quel disagio (anche sensoriale) che tiene alta e costante l’attenzione dello spettatore per la tensione incontenibile imposta alla storia.

 

Partiamo allora parlando degli autori appunto che sono il già citato Davide Alfonsi e Denis Malagnino (entrambi nati nel 1977) registi e sceneggiatori (coadiuvati per la scrittura, da Daniele Guerrini), e anche responsabili sia della fotografia (Alfonsi, come già detto sopra) che del montaggio (Malagnino).

I due hanno fondato nel 2004 il “Collettivo Amanda Flor”  (se qualcuno ha buona memoria, è proprio al coraggioso impegno di questo gruppo che si deve – nel 2006 – la realizzazione di La rieducazione, un piccolo “grande” film visto – purtroppo - da pochissime persone, ma del quale si parlò abbastanza - sembrò potesse diventare addirittura un “caso” - quando ebbe l’onore di essere invitato a partecipare alla Mostra del cinema di Venezia dove se non ricordo male fu programmato (sezione “Settimana della Critica”) quale film di chiusura della manifestazione di quell’anno.

Questo collettivo ha realizzato in seguito altri cinque cortometraggi (Annunciazione, Una piccola soddisfazione, L’odore del pesce, Immigrati dal futuro e Visitazione) ma solo nel 2010 dopo aver trasformato il collettivo stesso in una vera e propria casa di produzione indipendente, le due anime del progetto (Alfonsi e Malagnino appunto) sono riusciti a realizzare questo Ad ogni costo, a tutti gli effetti la loro notevolissima “opera seconda” nel campo del lungometraggio a soggetto: ragazzi giovanissimi (la mia vetusta età mi permette di apostrofarli “affettuosamente” cosi), uniti e sorretti da un talento davvero fuori dal comune, come stanno a dimostrare i “tangibili” e positivi risultati raggiunti con le due pellicole a cui faccio riferimento (nulla purtroppo posso dire dei loro “corti” che non conosco) che hanno una condivisa  (e condivisibile) coriacea “idea” di cinema che stanno portando avanti con felicissime intuizioni narrative (che ben sottolineano l’impegno ideologico che li sorregge), utilizzando per altro capitali davvero irrisori. Per questo secondo titolo, nonostante il low budget, si sono una volta tanto potuti avvalere di collaboratori professionisti per la parte tecnica, ma non hanno potuto invece fare altrettanto per gli attori, che sono anche in questo caso tutti “non professionisti”, il che però a conti fatti non è un limite, ma un elemento di straordinaria riconoscibilità e aderenza, visto il tema trattato e l’ambientazione suburbana della pellicola. Senza nulla di scritto, con le loro acerbe asprezze, gli attori non professionisti hanno infatti interpretato al meglio i loro personaggi, improvvisando spesso - su una scaletta di situazioni già tracciate in fase di sceneggiatura - grazie alla loro ispirazione e alle personali, sofferte dirette esperienze della  propria vita vissuta. E vi assicuro che funzionano alla grande (a volte sono così intensi e “credibilmente” veritieri, da creare una profonda emozionalità che va oltre la finzione della messa in scena).

 

Come già nel loro primo film dunque, si cammina anche questa volta tra le periferie più estreme e degradate (quella che “circonda” la nostra capitale in questo caso) dove i problemi sono drammatici e reali, e il disagio ha  radici profonde. Periferie così diverse dalle cartoline  e dagli spot che fanno promozione turistica, da assomigliare spesso a veri e propri gironi infernali, un po’ insomma come ci viene fatta percepire da Iñárrito l’”indecorosa” e sporca Barcellona della marginalità dei disperati e dei reietti nel suo recente, bellissimo e poco capito (e ancor meno apprezzato)Biutiful.

Gli autori  hanno definito Ad ogni costo una versione al vetriolo di Kramer contro Kramer (credo con un piccolo, sotteso  senso del paradosso provocatorio che chi vedrà il film potrà cogliere immediatamente, perché al di là dei riferimenti di un soggetto che porta anche in questo caso in primo piano la lotta fra un padre e una madre per la tutela del figlio – che nel frattempo è stato sottratto a entrambi e affidato ai servizi sociali, cosa che segna già una differenza notevole - non ci sono davvero altri parallelismi possibili che potrebbero essere fatti e resta davvero difficile immaginare due film più diversi  fra loro di questi due titoli,  non solo nelle evoluzioni della storia, ma anche nella forma della rappresentazione).

Ad ogni costo potrebbe infatti essere benissimo definito come “un film in presa diretta sulla realtà quotidiana del suburbio”, ultimo rifugio degli “ultimi”,  una realtà fatta di cinismo e sopraffazione, e che una volta tanto ci viene anche ribaltata fino in fondo rispetto agli  stereotipi classici della convenzione, perché qui l’anima nera della storia, il personaggio più inquietante e violento, non è Gennaro, il marito, ma bensì la moglie Luisa, autentico boss di borgata (e non a caso sarà lei a trionfare, non perché “migliore”,  o semplicemente “donna” e “madre”, ma semplicemente e pragmaticamente, per il suo essere priva di qualsiasi scrupolo etico, la vera “anima nera” della storia).

Girato nell'arco di tre mesi, il film non allenta mai la presa  sul pubblico, che riesce a  far affezionare ai personaggi (soprattutto quelli maschili) che ci “denuda”  davanti,  certamente negativi, ma dotati anche di una umanità profonda che pochi sanno di possedere e che  in un ambiente estremo come quello, dove ci si deve difendere non solo con le unghie e con i denti, ma anche col coltello e la pistola , è persino  difficile (per non dire impossibile) far emergere e mostrare (e ancor meno farla considerare un “apprezzabile” valore).
Un film dunque scabro, pieno di asperità e cicatrici, che prende vita e si anima proprio grazie a una messa in scena nervosa ed implacabile che può contare su un finale di straordinaria intensità anche  emotiva,  da vero “noir” di classe, che lascia davvero stupefatti anche per la perizia della realizzazione.

Ad ogni costo ha anche il pregio – nonostante la durezza dei temi trattati - di non essere mai predicatorio, e di evitare qualsiasi giudizio morale sui protagonisti. Non ha  forse nessuna  ambizione (io preferisco dire voglia) di affrontare il discorso per arrivare a fare una denuncia sociale delle cose, anche se è implicito che niente accade per caso e che tutto ciò che ci viene presentato (e che ci fa star male) è il frutto di un degrado più generale del mondo e delle sue strutture portanti, interessato solo al consumismo e sempre meno attento e pronto a supportare chi è nato e vive ai margini del precipizio. Appare infatti chiaro ed evidente  che a Gennaro e Luisa non sono mai state offerte da nessuno – tanto meno dalle istituzioni preposte a farlo – altre possibilità di scelta: delinquere per loro si evidenzia come il percorso obbligato da seguire, il destino ineluttabile di una predestinazione “naturale”dalla quale non ci si può sottrarre, perché quella è la “casta” dell’appartenenza e quella la sorte designata. Ma non c’è alcuna “giustificazione” implicita nel constatare ciò: semplicemente la necessità di dover registrare  la dissoluzione di una condivisione sociale  che ormai si è quasi del tutto estinta (potremmo anche supporre che le intenzioni dei due autori, annotando implacabilmente ciò che accade nel presente, siano quelle di fare riferimento a un probabile, sempre più rischioso futuro nel quale le situazioni degenereranno ulteriormente, saranno sempre più drammatiche aprendo la strada a soluzioni ancor più estreme, perché – sembrerebbe volessero concludere invitando a fare altrettanto allo spettatore - per interrompere la catena di violenze o invertire  la tendenza, sarebbe necessaria una autentica rivoluzione che partisse proprio da ciò che viene fatto - troppo poco e male - per l’assistenza sociale e il supporto operativo al degrado, cosa al momento assai improbabile). E  al riguardo gli autori sono tanto consapevoli e concreti nel valutare come stanno andando realmente le cose, da far si che la visione del film e il suo concludersi , possa  pessimisticamente suggerire che per loro una ipotesi di questo genere, anche solo immaginata, più che un traguardo lontano si presenta come un’utopia quasi impossibile da attuarsi, ma per la quale vale comunque la pena di lottare.

Sulla trama

Gennarino, il protagonista maschile della storia,  è un pusher che vuole riabbracciare ad ogni costo il figlio tolto a lui e alla moglie nel frattempo finita in carcere, per essere affidato ai servizi sociali. La sua appare da subito un’impresa disperata: il carattere irascibile, le reazioni violente di chi ha fatto uso e abuso di stupefacenti, e un recente passato da spacciatore, non lo aiutano certamente (sono semmai tutti elementi al negativo che  non possono che convincere il Giudice a tenere l’uomo il più lontano possibile dal bambino).
Dopo aver provato inutilmente a cercare un lavoro per raggiungere l’obiettivo prefisso, visti falliti tutti i suoi tentativi che potremmo definire di “redenzione”, finirà così per riprendere l’attività che conosce meglio e che gli rende di più: lo spaccio.
Con grandi capacità manageriali, riesce a mette su un soddisfacente giro nel fatiscente quartiere dove vive, con tanto di sentinelle, consegne via cestino dalle finestre della droga richiesta e la protezione di un ispettore di Polizia.
Il lavoro prende quota (Gennaro riesce anche a mostrare – quando può – persino il suo buon cuore, aiutando amici in difficoltà come Paolo e non solo,  sempre con l’obiettivo primario di poter riabbracciare il figlio prima o poi grazie alla sua ormai crescente disponibilità economica).
Ma è l'uscita dal carcere della moglie, la spietata Luisa, a mettere a soqquadro il tranquillo e fiorente mercato di Gennaro: grazie a un indulto la donna viene rimessa in libertà prima del previsto  e a suon di pistolettate cerca di riprendere il controllo delle cose e la percentuale sui guadagni fatti da Gennaro con lo smercio di eroina fatto nella zona.
La discesa verso una drammatica conclusione di straordinaria pregnanza che fa davvero male al cuore come e di più di tutto ciò che ci è stato presentato di tragicamente doloroso fino a quel momento, diventa allora sempre più ripida e pericolosa, fino a che… (mi fermo ovviamente qui per evitare “disturbanti” spoiler suggerendo implicitamente a chi “riesce” di appropriarsi di questa interessante “rarità”).

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