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We Want Sex

Regia di Nigel Cole vedi scheda film

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La recensione su We Want Sex

di (spopola) 1726792
8 stelle

Un ottimo esempio di cinema militante girato con garbo e leggerezza come solo gli inglesi sanno fare: divertente, ironico, spiritoso e tutto da godere, è la storia (vera) di un gruppo di operaie della Ford che con la loro tenace determinazione riuscirono a mettere in difficoltà l’azienda e ad ottenere dei risultati davvero sorprendenti.


Made in Dagenham è una commedia vibrante e femminista full British, che ci riporta alla cronaca operaia sessantottina (ed è davvero un fatto positivo questo). Il titolo italiano non del tutto improprio, visto che riprende ma solo parzialmente  ciò che era stato giustamente “pennellato” su uno striscione emblema della lotta (We want sex equality)  rimodellato e preso in prestito forse un po’ furbescamente per stimolare alla visione una più larga fetta di pubblico, probabilmente ha ottenuto invece l’effetto contrario “disorientandolo” e l’incasso alla fine e  nonostante tutto, compresa l’attualità “specifica”  dei fatti narrati che parallelano nella sostanza con molti avvenimenti della nostra odierna  beffeggiata realta operaia,  non è stato certamente all’altezza non solo delle aspettative, ma anche del merito, ed è un vero peccato.
Diciamo subito che il tono, pur trattando temi importanti, è accattivante e leggero (e non avrebbe dovuto spaventare chi preferisce un cinema di intelligente intrattenimento, ma se ne è comunque tenuto abbastanza alla larga come accade sempre più spesso con i prodotti di qualità): Nigel Cole (che non è né Ken Loach né Peter Mullan, ma nemmeno Mike Leigh, come ben sappiamo), già autore  di opere come L’erba di Grace e Calendar Girl, è uno specialista in questo campo (impegno tematico, certo, ma con un occhio al risultato anche “di cassetta” del progetto). La sua particolare  rappresentazione delle cose è infatti capace di  “costruire” e di veicolare  emozioni mentre documenta eventi che (come in questo caso) segnarono addirittura la Storia (quella con la S maiuscola) più che delle lotte sindacali tout court, proprio dell’emancipazione sul lavoro (fabbrica Ford di Dagenham in Gran Bretagna, nello specifico, anno di grazia 1968) e lo fa con gusto e nonchalance che avvicinano il suo cinema  a Full Monty o a Grazie, Signora Thatcher.
“Perfette” atmosfere e scoppiettanti dialoghi, dunque, perché qui certamente si riflette e si pensa (ci si arrabbia magari anche un pò nel vedere come ci siamo poi ridotti adesso), ma si ride spesso e ci si commuove a volte, in un caleidoscopio di situazioni sempre gustose e accattivanti, stimolate dalla grintosa forza  e determinazione di un formidabile gruppo di donne passionali, colorate e dalle indimenticabili acconciature cotonate perfettamente corrispondenti a quelle in uso in quel periodo.
Semplicemente We want sex, dunque, se lo striscione rimane ”volutamente” in parte arrotolato e l’effetto un po’ ammiccante che si determina, incuriosisce e fa sorridere i passanti che lo osservano e si “immaginano “ altre cose.  E’ certamente uno spunto, un “indirizzo” e una scorciatoia per veicolare meglio un’idea e una convinzione, che può sembrare persino una macchietta (ma qui non è un difetto) che ben si conformizza con tutta la storia raccontata  da un film “inglese” come questo, commerciale e proletario al tempo stesso come solo quella cinematografia sa produrre e fare.L’inizio della pellicola sembra l’entrata in scena di una commedia teatrale “scacciapensieri” con scalinata trionfale compresa, transitata a ruota da tutte le interpreti, e già indica da sola il passo scelto dal regista per recuperare dall’oblio questo importante esempio di “solidarietà” vincente, ben lontano nello stile persino dalle durezze di un classico  come Il sale della terra più conosciuto da noi col titolo di Sfida a Silver City, anche se nello stabilimento Ford  di Dagenham si respirava in quegli anni un’atmosfera tutt’altro che swinging, e non solo per le  avvilenti condizioni di lavoro, visto che il sessismo (come in tutto il mondo industriale) era ancora imperante – non lo è forse ancora adesso anche se in forme più sottili? - e  le donne a parità di impiego (degradate qui immeritatamente addirittura  a operaie non specializzate con un ulteriore taglio dei compensi), guadagnavano meno  e operavano in contesti peggiori  dei colleghi maschi (qui relegate in un capannone umido e fatiscente a cucire i sedili delle auto, in reggiseno e vestaglietta per contrastare  il caldo ed il sudore). Ma nonostante  i tempi divertiti e un po’ “favolistici” della messa in scena, sono principalmente i fatti, i risultati, quelli che contano questa volta,  che Cole fa emergere e sostiene: Marchionne dovrebbe guardare e meditare, ma non solo lui ovviamente visto che solo pochi mesi fa di fronte a un inaccettabile ricatto per  qualcosa di molto più grande e “definitivo” che è un vero e proprio ritorno alla barbarie, due dei più importanti sindacati di categoria  in evidente “combutta” con un governo che non muove foglia ed è sempre dalla parte dei più forti,  hanno accettato tutto (a me non la contano giusta, mi sembrano talmente pretestuose le argomentazioni addotte), rinnegando un secolo di lotte e di vittorie, calandosi le brache senza batter ciglio e creando così un inevitabile “effetto valanga” che sta travolgendo tutto il mondo del lavoro, fino a renderlo  più arbitrario e provvisorio di quanto non lo fosse già diventato prima).Quando l’ho visionato in sala il film (cos’era, il mese di gennaio?)so per certo che era  il periodo del referendum Fiat allo stabilimento di Mirafiori, un momento particolarmente “caldo” e delicato dunque) queste donne che lottavano per la loro dignità e il futuro, mi sono risultate così da subito simpatiche (era inevitabile che succedesse questo), anche perché essendo di una generazione che ha partecipato attivamente a simili conflitti e che ha combattuto tenacemente per il miglioramento, posso testimoniare che avevano ragione, e che il loro schierarsi era giusto e motivato. Io sono allora  virtualmente  con loro, e mi considero  fieramente “di parte”,  pendo posizione attiva, ugualmente battagliero pur se comodamente seduto nella mia poltrona , perché rilevo (e dovrebbe essere idea corrente e condivisa) le troppe  inquietanti analogie con un presente che non vorrei essere costretto a digerire (anche se ormai sono un pensionato e potrei chiamarmi fuori). Mi riferisco alla scena del colloquio tra il Segretario di Stato per il Lavoro e la produttività (non a caso una donna però, e per di più di ferrea fede laburista come Barbara Castle, detta “la rossa” non solo per il fiammante colore dei capelli) e il direttore Generale della Ford inglese Robert Tooley che, firtemente  preoccupato che le operaie possano ricevere l’appoggio del governo nella loro lotta per la parità salariale, vuole chiudere presto la partita ad esclusivo suo vantaggio. Tooley minaccia infatti  di spostare la produzione all’estero, con conseguente perdita di 400.000 posti di lavoro più l’indotto, nel caso in cui il governo non respinga le richieste delle lavoratrici, ma nessuno abbocca: “Come Marchionne! “ sento risuonarmi nel cervello: “Come Marchionne! : ma il film però non è (purtroppo) la storia della Fiat  odierna né il governo di allora (quello di Cameron, che nel 1970 varò poi anche la legge sulla parità salariale) è paragonabile a quello dei nostri lestofanti legislatori del presente… insomma mi sembra davvero di essere su un altro pianeta, e mi sento alla fine più che amareggiato un po’ tradito. Le 187 lavoratrici  in lotta sullo schermo non demordono però, e non si lasciano scoraggiare, portano avanti uno sciopero a oltranza nonostante i rischi e le minacce,  che finì davvero per fermare l’intera produzione britannica  di auto Ford (senza sedili, niente prodotto finito), lasciando così anche i mariti a casa “privi di stipendio”, situazione questa che in moti casi determinò grosse frizioni e  addirittura una tragedia (oggi ci si arrende e si capitola – parlo delle “maggioranze” che preferiscono restare silenziose – per molto meno).
La storia è reale e corrispondete alla realtà, pur se ricostruita con vicende che nel “privato” diventano di pura fantasia: questo gruppo di donne che con la loro forza d’animo e tenacia riuscirono a mettere in difficoltà l’azienda per la quale lavoravano (un colosso come la Ford!) e ad ottenere dei risultati insperabili per l’epoca, è un fatto effettivamente accaduto anche se non se ne parla molto in giro, anzi per nulla, si potrebbe dire (ci sarà una ragione “tecnica” e di convenienza,  se simili avvenimenti vengono scientemente tenuti  in sordina e quasi “negati”, non credete? Potrebbero fare cattiva propaganda e risvegliar proseliti!).
Torniamo però al film mettendo al bando troppa galoppante nostalgia, sennò si rischia di uscire fuori dal seminato!
E’ un femminismo ante-litteram  questo tripudio di cameratismo "rosa" già definito ed avvertibile fin  dalla prima sequenza - quello di un gruppo di donne semplici, strette tra l’urgenza di lavorare e farsi rispettare, e il desiderio di vivere senza troppi patemi d’animo la propria esistenza privata - che è raccontato quasi come se si trattasse più di un’evasione da un’esistenza grigia e ripetitiva anziché di una scelta davvero ponderata, anche se la coscienza di classe alla fine emerge, eccome! (e in questo senso alcune soluzioni possono risultare allora un po’ arbitrarie, finalizzate solo a “movimentare” la scena drammatizzandola un poco, come il suicidio del marito di Connie che si toglie la vita a causa dell’impegno nella lotta della moglie). Qui però ogni cosa anche se  è  stata un pò “ricostruita” ed “aggiustata” alle esigenze spettacolari dell’azione, prende comunque origine  dalle dirette testimonianze delle protagoniste di una volta (assolutamente da non perdere i titoli di coda, con le immagini delle vere operaie oggi piuttosto avanti negli anni che fanno tenerezza) e non lasciamoci allora portare fuori strada semplicemente da momentanei, piccoli eccessi di melassa!
Perché quelle superstiti, come Ellen Pullan (81 anni) o Sheila Douglas (73 anni), continuano a mostrare ancora adesso, inalterato, lo spirito combattente che avevano una volta, e tutte insieme, appassionandosi al progetto, non hanno certamente fatto sconti al regista quando ha deciso di girare questa pellicola portando sullo schermo la loro lotta sessantottina di gioventù e le ha dovute interpellare per documentarsi: sorridono, semmai, un po’ sornione, ma anche ironiche in fondo,  fiere di poter sbandierare un vissuto così importante e necessario, mai presuntuose o “vanitosamente” atteggiate però,  ma  ancora più partecipi nella condivisione, e soprattutto pienamente soddisfatte ed appagate per il risultato conseguito sul campo: Abbiamo spiegato a Cole  come è andata – sono le loro parole queste - , e lui è stato bravo: il film è come volevamo che fosse. E’ capitato che ci fossimo noi in quella situazione, ma non è un particolare merito che ci deve essere attribuito e riconosciuto quella vittoria conseguita anche con il contributo del nostro operato, perchè chiunque al nostro posto avrebbe reagito allo stesso modo: ci avevano dimezzato il salario e noi non potevamo che incrociare le braccia. Ed è stato poi grazie a Barbara Castle  all’epoca Ministro dell’occupazione - e non a caso donna anch’essa – che abbiamo finalmente ottenuto  l’equiparazione agli stipendi degli uomini. La semplice ovvietà con cui si raccontano, rivela semmai ancora una volta (e riconferma),  l’aderenza totale fra pensiero e azione che c’era in quei giorni e in quelle lotte e  che oggi non c’è più perché i giovani si sono rammolliti. (… ) certo durante le giornate di sciopero non capivamo la portata di quegli eventi, ma sapevamo che dovevamo agire e che non avevamo altra alternativa.
Mai durante i loro racconti – aggiunge poi Cole - così importanti per scrivere una storia “fedele” anche se raccontata con un tratto di grottesco, il tono è caduto nel nostalgico. Quelle donne sono davvero l’emblema dello spirito ironico della working class britannica.
Timidamente sobillate all’inizio da un impacciato e un pò timido sindacalista (Bob Hoskins) allevato da una madre single che gli ha trasmesso però un gran rispetto per il quotidiano eroismo virato al femminile, ma poi sempre più convinte, grazie anche all’impegno della tenace, mingherlina Rita O’Grady (una superba Sally Hawkins) che si improvviserà sindacalista dando filo da torcere a tutti, padroni e boss dei sindacati (perché alle volte in queste trattative, sono anche loro che fanno  loschi affari a totale discapito di quelli che  dovrebbero difendere,  lo sappiamo bene).
L’intento dichiarato (ma alla fine anche rispettato) del regista, è  stato dunque quello di far rispecchiare nella pellicola proprio la spontaneità e la natura di queste donne, così estroversamente disponibili a mettersi in gioco e a "ricordarsi", ma riscattandole nella rappresentazione, dal grigiore delle condizioni disumane in cui erano costrette a lavorare e vivere. E in effetti delle davvero atroci condizioni di “sopravvivenza” di quei tempi, poco o nulla traspare da un film che tutto sommato ci fa sembrare invece quello che era certamente un  tetro spazio, persino un luogo  se non divertente, per lo meno allegro e “spensierato”. Non è certo un male, soprattutto per come intende il cinema Cole:  un film è sempre e solo un film,  e in particolare  lo è proprio questo, che pur essendo costruito su un fondamentale fatto storico (l’Inghilterra è sempre stata all’avanguardia nella lotta per i diritti delle donne)  contiene quel giusto mix di humour, commedia e dramma (Cole), per altro scecherato  con un certo stile,  ed assoluta levità di tocco, che mostra però con dovizia di situazioni e dettagli umani, anche quanto gli atteggiamenti patriarcali siano duri  a morire persino fra gli uomini più politicizzati e progressisti.
Nel film quasi tutto fila liscio (come conviene a una commedia) con le sue storie, i drammi familiari che si ricompongono (Rita ed il marito Eddie), persino le tragedie, che comunque alla fine si riscattano un poco (il già citato suicidio di George il marito di Connie), l’operaia un pò gaudente e l’aspirante modella. Sotto questo profilo, tutto è inappuntabile: gli attori sono bravi, i costumi e le ambientazioni credibili oltre che piacevoli, le vicende appassionanti e coronate da un lieto fine che è sempre ben accetto, l’uso di riprese che si rifanno al cinemascope di una volta, particolarmente accattivante ed appropriato, grazie anche a una fotografia densa e patinata, fatta di  colori vivi e di contrasti cromatici, ideale per restituirci “intatta” ma ben filtrata, la “finta” atmosfera di quegli anni lontani. La colonna sonora è poi di assoluta pregnanza, come si conviene in questi casi. Spicca al suo interno l’inno alla protesta You can get it if you really want (Jimmy Cliff, 1970) che  completa al meglio il risultato, integrando con perfetta aderenza il  meticoloso lavoro “ricostruttivo” delle ambientazioni che ben riesce,  senza badare a spese,  a rendere l’aspetto del film brillante, il meno monotono possibile (Stephen Wooley, produttore della pellicola), e che utilizza anche gustosi intermezzi come quello che ci mostra Lisa (Rosamund Pike) , moglie del dirigente Ford, che nonostante una laurea in storia moderna ed opinioni intelligenti ed informate che avrebbero meritato di essere più ascoltate dal marito, viene invece “interpellata” solo per portare in tavola il formaggio, che si mescolano ad altri  forse un tantino appesantiti da un eccesso di grottesco, come la  descrizione dell’intervento  risolutorio del ministro Barbara Castle (Miranda Richardson) con i suoi clowneschi accompagnatori totalmente ottusi (volutamente un pò “surreale” e astratto).
Nel complesso dunque una piacevole e divertente pellicola,che si poggia su un’ottima idea  e un ritmo efficace della messa in scena  che “fa sul serio” anche per la scelta del soggetto: la questione interessante  che permette di affrontare, è alla fine allora proprio il rapporto fra pubblico fruitore e realtà rappresentata sullo schermo, dove la scommessa sembra essere quella di far diventare merce narrativa un avvenimento di portata storica, ma per tramandarlo ai posteri in una nuova, più accattivante forma.  Una scommessa – devo dire - questa volta vinta con pieno successo, perché giocata con numeri di alta professionalità, con estro ed inventiva, e  anche con adeguate risorse tecniche e di capitali. E’ la storialità narrativa del cinema ha  scritto a tale riguardo Giorgio Manduca dove per sua natura, elementi apparentemente autentici, coniugati nella sensibilità  contemporanea, avvertono  il bisogno di raccontare storie vere come se fossero inventate, e magari lo sono anche un poco.
Non è un caso allora che il compito riportare il senso della Storia nella narrazione,  sia affidato poi ai filmati di repertorio o a quell’inserto documentaristico che mostra le attuali vere operaie e che, di fatto, costituisce proprio il momento più emozionante, autentico (e sincero) di tutta l’opera.

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