Regia di Guillaume Canet vedi scheda film
Nel mio personale pantheon cinematografico c’è un film che occupa un posto di riguardo. È Il grande freddo di Lawrence Kasdan, film che ho amato alla follia sin dalla prima scena, nonché una delle opere più seminali, citate e copiate degli ultimi trent’anni. Questa premessa è necessaria perché mi risulta vagamente stucchevole (se non irritante) sopportare le pataccate che pretendono d’ispirarsi ad uno dei migliori film corali e generazionali della storia del cinema. Dico da subito che Piccole bugie tra amici, nonostante le infauste basi (gruppo di amici con vari problemi in una casa vacanze), è un buon film anche perché chi ha tirato in ballo il film di Kasdan si è limitato ad una visione superficiale della storia.
Sì, c’è il gruppo di amici, c’è l’interno (e anche un esterno spettacolare), ci sono i vari problemi personali, c’è un po’ di nostalgia musicale, c’è soprattutto il lutto (qui annunciato dall’inizio ma concreto solo alla fine). Ma non è un film generazionale. Innanzitutto perché colui che, tutto sommato, è il protagonista (cioè François Cluzet, fantastico in un ruolo isterico, schizzato e paranoico) ha evidentemente un’età maggiore rispetto ai comprimari, così come pure il suo amico di infanzia, e poi perché nelle loro vite (o almeno in ciò che il generosissimo Guillaume Canet ci lascia vedere) non c’è spazio per il mondo (una roba che era impensabile nel coro impegnato di Kasdan o, giusto per tirare in ballo un altro esempio analogo, nella consapevolezza sessantottina di Compagni di scuola di Carlo Verdone).
A suo modo, Canet s’interessa al negativo della fotografia corale, cerca (e trova) l’intimismo, mette in luce l’evidente paura del dolore tipica del nostro tempo liquido incapace di relazionarsi col dolore, sceglie di costruire un piccolo mondo fatto di piccoli psicodrammi personali che diventano collettivi per forza di cose, quasi dimenticando l’esistenza di un contorno esistenziale che non sia limitato alle vite di quegli amici.
L’economia sentimentale è in crisi, entra in collisione con le vite dei protagonisti dal momento in cui una vita sfugge di mano ad uno di loro. Che, nella fattispecie, è Jean Dujardin, la cui assenza è una presenza pesante quanto accantonata, rimossa, evitata. Non viene messo davanti all’accudimento del malato l’egoismo della vacanza a tutti i costi, c’è piuttosto una reale mancanza di connessione con il fatto, un’apnea emotiva che li costringe vigliaccamente ad un allontanamento violento.
Ogni personaggio incarna una paura non detta, che è al contempo ossessione, e allo stesso tempo alibi: tra sessuomani con difficoltà relazionali (Gilles Lellouche che passa da una donna all’altra finché non lo molla l’amata; Pascale Arbillot che guarda filmati porno di notte; Marion Cotillard dalla vita sessuale più che turbolenta) e romantici inossidabili (Joel Dupuch che vive sul mare da una vita; Laurent Lafitte che chiede a tutti consigli per riconquistare l’amata), emerge il duetto tenero, nervoso e divertente tra il tesissimo Cluzet e il migliore amico Benoit Magimel (bravissimo) improvvisamente innamoratosi di lui.
La colonna sonora cita alla grande tutto un universo (The Weight è puro Grande freddo, e poi Janis Joplin, David Bowie) ed è spesso complice (se non responsabile) della tensione sentimentale che scorre per buona parte del film (comunque troppo lungo, ma forse va bene così). Qualche lacrima, due o tre grasse risate, malinconia ma non troppa e un dubbio: che Canet sia il Muccino d’oltralpe, più equilibrato e meno isterico ma comunque della stessa razza?
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