Regia di Tom Hooper vedi scheda film
Diretto da Tom Hooper, ma concepito da David Seidler, su una sceneggiatura sperimentata a teatro, “Il discorso del re” è ispirato ad una storia vera: narra delle difficoltà di re Giorgio VI di affrontare il pubblico perché balbuziente.
Questa premessa didattica, mi suggerisce di evitare un post ironico, per sperimentare una critica matematica:
STRUTTURA
Il film è canonicamente suddiviso in una articolata introduzione, ove vengono presentati i personaggi, un classico intreccio, tendente a far emergere il passato di Giorgio (uno strepitoso Colin Firth) con il confronto con il logopedista (Geoffrey Rush, che, in ogni caso, vince l’incontro ai punti), un prefinale, in cui viene svelata la vera natura del terapeuta, una riconciliazione finale.
Da questo punto di vista, dunque, l’opera appare prevedibile e risaputa.
MONTAGGIO
Le riprese che alternano carrelli e dolly senza spiegazione sono legate da un montaggio che spezza ogni scena nei primi venti minuti da campo a controcampo in 2, 4, 8, 12 secondi (secondo un rituale matematico di concessione informazioni allo spettatore). In tal caso, il montaggio diventa il vero padrone della pellicola, lasciando pensare che l’autore dell’opera potrebbe benissimo essere stato il produttore. Sfugge, a questo punto, il senso dell’operazione: senza un guizzo, con un attacco da fiction televisiva (seppure d’altissimo livello), si può ben dire che non c’è un attimo di personalizzazione in questo prodotto mainstream.
INTERPRETAZIONE
Geoffrey Rush nel ruolo del terapeuta – attore pone la sua faccia al servizio delle battute e non viceversa, come imporrebbe il ruolo: la sua recitazione, così, risulta sofferta e schematica, tendente al manicheismo, senza una vera anima. Tutto appare calibrato mai spontaneo e, pur essendo un personaggio di fantasia, l’attore gigioneggia in modo eccessivo, finendo con il danneggiare l’intera pellicola. Basti, a tal punto, osservare la scena a tavola con la sua famiglia, dove mantiene persino le posate in linea retta, ben attento a non utilizzarle per mangiare davvero. Oggi, guardando altri film di questo protagonista, osserviamo come sia in “Shine” che in “Tu chiamami Peter”, la sua mimica è davvero limitata, le sue maschere tutte uguali. Dal canto suo, il gigante Colin Firth pensa che sia sufficiente portare in giro il suo 1,94 cm per definirsi “regale”: sia che dica le parolacce (un re???), sia che resti muto, non increspa neppure la fronte, non inarca mai un sopracciglio, sembra capitato lì per caso, nella speranza che il film finisca in fretta. Si stende un velo pietoso su Helena Bonham Carter, musa di Burton, il cui frivolo personaggio di moglie del principe consorte è inutile: resta “una tinca”, necessaria solo per favorire l’incontro tra il re ed il terapeuta.
MORALE
Trovare un messaggio in questo film è fin troppo facile: il cinema, arte sequenziale per eccellenza, viene scomposto dagli autori in tanti frammenti, che ne svelano poco a poco la sua natura, raccontare per denunciare, per romanzare una storia, per documentare un accaduto, per ripercorrere un fatto, per il semplice piacere di entrare nelle paure dell’uomo. Invece, qui la condanna dei mass-media è più forte della gioia di ricostruire i fatti: la radio come “potente” mezzo in grado di far diventare un omone il dittatore Hitler, e capace di “demonizzare” il grande Giorgio VI riducendolo semplicemente ad un omuncolo indifeso in pubblico.
Il terapeuta sostituisce con il suo metodo il protocollo di corte, innestando una relazione ai limiti della complicità con il sovrano, che chiamerà con il nomignolo affettuoso di “Bertie”: il re non deve guardare al mondo con paura, ma provare a cucire in sé il filo interrotto della relazione con l'altro, affrontando il suo popolo dietro al microfono. Incoraggiando l’allievo a controllare la propria vita grazie all’autostima, sembra, però, che il logopedista di origini australiane ne determini in modo ambiguo la vittoria non solo con le parole ma soprattutto con le potenze dell’Asse.
Ricattatorio.
REGIA
Non è un film di regia, neppure di scrittura. In realtà, poggia completamente sul fascino degli interpreti: lasciando uscire i fantasmi del suo passato, Giorgio VI guarisce dal suo stato, adottando numerose strategie per risolvere il suo problema di balbuzie. Ma non deve, in fondo, nulla al suo terapeuta: è solo un attore. La condanna della psicanalisi, soffusa, è, a conti fatti, illegittima: il cinema è terapeutico, sicuramente, ma non tocca al direttore d’attori stabilirlo. Sembra allora che quegli si sia preoccupato più di non scontentare nessuno, senza prendere davvero un punto di vista. Al regista spetta il compito di “sporcare” la trama, insinuare dubbi, lavorare su personaggi a tutto tondo, magari ambigui, non dare tante spiegazioni (sottovalutando così l’intelligenza del pubblico), evitare di stancare. E poi cesellare, limare, neutralizzare gli innumerevoli spazi morti. Tutto è accademia, patina, superficie. A tal riguardo, basta osservare come le notizie su Edoardo di Windsor e Wallis Simpson vengano date dagli attori solo con il senno di poi, a posteriori, mai prima.
Convenzionale, retorico, incapace di creare vero pathos, il cinema medio de “Il discorso del re” non ha più identità, se mai l’ha avuta in passato. E il pubblico che trova è, anch’esso, casuale, stordito dall’elogio sperticato di critici dalla bocca buona : cercando di ottenere il massimo plauso possibile da chi osserva., arriva a ricattare lo spettatore con la morale: tutti possono vincere le proprie difficoltà. Una domanda sorge, allora, spontanea: come si potrà riconoscere, alle prese con un altro soggetto, questo regista?
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